MILANO – Love Life non si apre con i titoli di testa e il nome degli attori. Love Life apre il sipario scaraventandoci in qualcosa di disturbante, fastidioso, imbarazzante. Una casa silenziosa, immobile e vuota, relazioni tese, parole graffianti, confusione, straniamento, coreografie per strada e sguardi che non si incrociano. Kōji Fukada, a otto anni dalla vittoria a Cannes del Premio della Giuria nella sezione Un certain regard con Harmonium, torna ribaltando gli archetipi cinematografici ma seguendo fedelmente la scia di un cinema nipponico guidato e instradato da maestri come Hamaguchi e Kore-eda. Love Life – in concorso a Venezia 79 e disponibile in streaming su Youtube e Apple Tv+ – prova a scattare una fotografia dei legami e delle relazioni emotive di quel Giappone borghese che si è esplorato molto ma che è talmente sfaccettato e in continua evoluzione sociale da poterlo inquadrare da ogni angolo e analizzarlo da ogni punto di vista e prospettiva.
Love Life senza preavviso ci catapulta in una casa, in una relazione fredda e silenziosa. Fukada
muove i personaggi come pedine e con pochi movimenti ci svela le maschere che indossano. Taeko (Fumino Kimura) e Jirō (Kento Nagayama) sono sposati da poco, lei ha un figlio da un precedente matrimonio, lui una relazione passata che ancora lo assilla e scegliere Taeko come sua compagna ha incrinato il rapporto con i genitori. In questo piccolo nucleo si respira imbarazzo, scomodità, silenzi inequivocabili e solo una tragedia inesprimibile smuove un immobilismo vestito da indifferenza e incapacità di guardarsi negli occhi. La morte del piccolo Keita scava un solco, apre un vuoto che ha bisogno di essere colmato. Taeko e Jirō iniziano così a muoversi nello spazio della vita, a scavalcare un recinto in cui si sono chiusi e in cui stanno scomparendo.
Lei si riavvicina al padre del bambino, uomo sordo e senza casa scomparso anni prima, lui torna a ruotare intorno all’orbita della donna che ha lasciato e a scaldarsi dentro un sentimento che riesce a smuoverlo. Ad affrontare il percorso più tortuoso sarà Taeko, che si sente in colpa per la morte del figlio e si trova a scontrarsi con un mondo diroccato, con una realtà troppo dura da sopportare. Sarà la riscoperta di un legame, un intenso viaggio dal Giappone alla Corea e una profonda analisi interiore a tracciare il suo percorso di rinascita verso l’accettazione di un futuro nuovo. Love Life è distanza, silenzio, spazi dilatati, un ragionamento sulla costruzione di una relazione, sulla sua caduta e sulla possibile rinascita. Solo il trauma riporta Taeko e Jirō a svegliarsi, come se stessero dormendo dentro un sogno fatto di lontananza e freddezza, che li costringe a schiudersi e uscire da una situazione in cui la superficialità controllava le relazioni, i sentimenti, i giudizi.
È nel silenzio e nell’indifferenza che si allontanano, bisognosi di altro, di ripartire, forse di ricominciare tutto da capo, e dove non arriva il linguaggio arrivano i gesti. Taeko tramite la lingua dei segni torna realmente a parlare, a dare importanza a un movimento, a uno sguardo. Per Fukada la vita è un cerchio: tutto prima o poi ritorna dove è già passato, dove ha già posato i suoi piedi. È così che, solo alla fine, il titolo compare sullo schermo come se stesse iniziando veramente qualcosa. Quel titolo lascia passare i suoi personaggi dove hanno già camminato, chiudendo così un cerchio non ancora completo in una maniera totalmente nuova senza più maschere o sovrastrutture. I personaggi di Love Life sono persone nuove che hanno avuto il coraggio di abbandonare i macigni che trascinavano per tornare a guardarsi negli occhi.
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- VIDEO | Kōji Fukada e Fumino Kimura raccontano Love Life
Qui sotto potete vedere l’intervista integrale da Venezia 79
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