MILANO – Che Steve Buscemi – volto di numerosi film dei fratelli Coen, Jim Jarmusch, Quentin Tarantino e Robert Rodríguez – abbia in curriculum una serie di personaggi più o meno nevrotici, sfigati e psicopatici, è cosa nota, non dobbiamo ricordarvelo noi. Meno noto è, invece, che il suo personaggio più disturbato e disturbante sia quello di Mosche da Bar, film del 1996 di cui Buscemi è attore, autore e regista. La pellicola, chicca del cinema indipendente anni Novanta, ruota attorno a Tommy, meccanico che ha perso il lavoro a causa dell’alcolismo. Accanto a lui si muove un’umanità misera e miserabile, un’America di provincia bianca, senza speranza. Non un gruppo di losers romantici, ma quel white trash che solo Johnny Cash sapeva cantare.
Buscemi qui è una marionetta indemoniata che, dentro vestiti troppo larghi, si muove in uno stato di perenne trance chimicamente indotta, senza mai provare a fare qualcosa di diverso che non sia creare problemi a sé e alle persone che gli gravitano intorno, come una routine inesorabile. Il Trees Lounge – anche il titolo originale – non è un locale dove andare con gli amici a divertirsi, ma solo il posto dove assumere alcool fino a perdere il contatto con la realtà insieme a un manipolo di rovinati, falliti e rigorosamente impenitenti.
Un lungo zapoj come raccontato da Emmanuel Carrère nella biografia di Limonov: un abuso ininterrotto di alcool che travolge la realtà e le relazioni, consumando tutto. E in Mosche da bar Buscemi fa impressione, letteralmente. Fa impressione perché interpreta il nulla interiore che lo divora con la perfetta leggerezza di chi ne è inconsapevole. Vicino a lui Mike, interpretato magistralmente da Mark Boone Junior (poi finito anche in Memento di Nolan!), è un personaggio perfino peggiore, che guarda la distruzione di tutto quello che ha da perdere senza neppure provarci, lasciando divorare tutto dalla voragine che l’alcolismo apre sotto i suoi piedi. Attenzione anche al breve, ma sempre intenso, cameo di Samuel L. Jackson.
Tutto è normale nel gorgo di caos che è la vita di Tommy, come anche andare a letto con la nipote minorenne, tanto non era neppure il primo adulto di famiglia ad abusare di lei. Quando si allarga il campo entrano in scena disgustosi personaggi di un clan famigliare povero di qualsiasi ricchezza materiale e immateriale. Non c’è una morale in Mosche da bar, non c’è un percorso di redenzione, ci sono solo un mucchio di cose che succedono senza che nessuno abbia gli strumenti per trarne insegnamento.
Forse perché la muta trasformazione della maschera di Buscemi nell’ultima scena, oltre a valere tantissimo sotto il profilo della recitazione, è come se ci dicesse che l’attimo di lucidità può arrivare in qualsiasi momento. Un film duro – Buscemi poi ne avrebbe diretti altri tre – capace però di strappare un sorriso per le situazioni grottesche in stile pulp anni Novanta che mette in scena, diviso tra Un gelido inverno e Louisiana, dove non si prova pena, non c’è compassione, solo rabbia. Un film assolutamente da non perdere per chi ama il cinema lontano dal meccanismo peccato-redenzione-uomo migliore.
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