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Lost in Translation o di quando Sofia Coppola mise la sua vita in un film

L’amore per Tokyo, un matrimonio in crisi e un’amicizia speciale per una storia autobiografica

lost in translation
Illustrazione di Alice X. Zhang

MILANO – Nel maggio del 1999 Sofia Coppola esordì come regista portando a Cannes Il Giardino delle Vergini Suicide. Un mese dopo si sposò con il fotografo e regista Spike Jonze che quello stesso anno aveva esordito sul grande schermo con Essere John Malkovich. Due pellicole di grande successo per due artisti dallo stile originale rispetto ai canoni di Hollywood. Ma nel 2003 la coppia scoppia e la Coppola realizza il suo secondo lungometraggio: Lost in Translation. «Un biglietto d’amore per Tokyo» come lo definì la stessa regista ma che, oltre a celebrare la città giapponese, era attraversato da una vena autobiografica.

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Bill Murray in un’illustrazione di Nurul Kusumaningrum

La storia di una ragazza Charlotte (una Scarlett Johansson diciassettenne), sposata con un fotografo in ascesa, John (Giovanni Ribisi), che segue in Giappone dove l’uomo è impegnato con l’ennesimo lavoro lasciandola sola tutto il tempo. Avete presente la scena del film in cui John e Charlotte nella hall dell’albergo incontrano Kelly (un’attrice con il volto di Anna Faris)? Beh il personaggio interpretato da Ribisi altri non è che il suo (quasi) ex marito – la coppia avrebbe ufficializzato il divorzio nel dicembre del ’99 -, mentre per anni, nonostante le categoriche smentite della regista, tutti convenivano sul fatto che quella ragazza bionda ed esuberante fosse una caricatura di Cameron Diaz che Spike Jonze aveva diretto in Essere John Malkovich.

Scarlett Johansson vista da Dennis Jacobs

Con settanta pagine di sceneggiatura e quattro milioni di budget, Lost in Translation ottenne altrettante nomination agli Oscar (portandosi a casa proprio quella per il miglior script). E pensare che la pellicola ha rischiato di non essere mai realizzata. Il motivo? Sofia Coppola aveva scritto il film pensando a Bill Murray per il ruolo di Bob Harris, una stella del cinema al tramonto in Giappone per filmare lo spot di un whisky dove incontra la giovane Charlotte e ne diventa amico nelle rispettive notti passate insonni all’hotel Park Hyatt di Tokyo.

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Illustrazione di Henry Kaye

La Coppola ha impiegato quasi un anno per riuscire ad incontrarlo, tra messaggi, lettere e l’aiuto degli amici Wes Anderson, Mitch Glazer e Al Pacino, e quando finalmente i due si sono seduti allo stesso tavolo, l’attore non ha potuto rifiutare la parte per non deluderla. E se è vero come ricordato sulle pagine di Filmmaker Magazine che la relazione tra Bob e Charlotte era ispirata a quella di Humphrey Bogart e Lauren Bacall ne Il Grande Sonno di Howard Hawks, secondo alcuni quel rapporto platonico è un riferimento a quello della regista con James Coburn.

Un dettaglio del poster di Lost in Translation firmato da Matt Taylor

Ma Lost in Translation, oltre ai riferimenti autobiografici veri e presunti, è il racconto intimo di due persone smarrite, due solitudini che s’intronano, tra piani di fuga e karaoke, in cui la regista omaggia i dipinti di John Kacere e Federico Fellini, usando la colonna sonora – con brani dei My Bloody Valentine, AIR e Phoenix – come estensione dello stato d’animo di Charlotte e Bob che insieme impareranno a sentirsi meno soli. Fino a quell’abbraccio finale, fatto di parole sussurrate, tra le strade affollate di una Tokyo testimone di un cambiamento.

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