ROMA – Il successo internazionale per Federico Fellini arrivò con La Strada, nel 1954, dove fu presentato in anteprima mondiale a Venezia 15. In quell’edizione iridata della Mostra, Fellini fu insignito del primo e unico Leone d’argento per la miglior regia, ma non senza polemiche. La première veneziana del 6 settembre fu accolta, a detta delle parole del docente e critico cinematografico Tino Ranieri: «In un’atmosfera inspiegabilmente fredda, il pubblico, che non gradì il film all’inizio della proiezione, sembrò cambiare leggermente opinioni verso la fine. Eppure La Strada non ricevette, in nessun senso della parola, la risposta che avrebbe meritato». Che ci crediate o meno, però, il peggio arrivò dopo. Quel Leone d’argento fu, infatti, assegnato ex-aequo a Fellini. Con lui anche Akira Kurosawa (I Sette Samurai), Elia Kazan (Fronte del Porto) e Kenji Mizoguchi (L’intendente Sansho).
Il grande escluso fu Senso di Luchino Visconti, e in platea accadde di tutto. Franco Zeffirelli – che del film fu assistente alla regia e regista delle seconde unità – iniziò a fischiare Fellini al momento del suo discorso per poi essere attaccato da Moraldo Rossi (l’assistente alla regia del Maestro). Il caos scosse Fellini e lasciò Giulietta Masina in lacrime. Un trionfo agrodolce che ad oggi, settant’anni dopo, è semplicemente un aneddoto di colore su uno dei film più belli, semplici e poetici del regista riminese, a lungo rincorso. Nei piani originali, infatti, La Strada sarebbe dovuto essere il film successivo a Lo Sceicco Bianco, per cui Fellini iniziò a pianificare la realizzazione – vale a dire a sognarlo – già all’indomani della post-produzione del film precedente. Alcuni ritardi nella produzione, però, lo spinsero verso I Vitelloni, ma senza mai dimenticarsene.
Il processo creativo de La Strada iniziò con vaghi sentimenti: «Era come una specie di tono che si nascondeva, mi rendeva malinconico e mi dava un senso di colpa diffuso, come un’ombra che incombeva su di me. Questo sentimento suggeriva due persone che restano insieme anche se sarà fatale per loro e non sanno il perché». E li tradusse tutti in immagini, disegni, schizzi: neve che cade silenziosamente sull’oceano, composizioni di nuvole, un usignolo che canta. Poi, su un pezzo di carta, disegnò un cerchio in cui vide la testa e il volto di Gelsomina, ovvero quello della Masina su cui si ispirò per i contorni caratteriali: «Utilizzai la vera Giulietta, per come la vedevo io, sono stato influenzato dalle sue fotografie d’infanzia. Alcuni elementi di Gelsomina riflettono una Giulietta di dieci anni».
Senza di lei sarebbe stato un film completamente diverso: «Credo di aver fatto La Strada perché mi sono innamorato di quella bambina-vecchina un po’ matta e un po’ santa, di quell’arruffato, buffo, sgraziato e tenerissimo clown che ho chiamato Gelsomina e che ancora oggi riesce a farmi ingobbire di malinconia quando sento il motivo della sua tromba». E a proposito della tromba, l’intero tema musicale del film è firmato da Nino Rota che lo scrisse a completamento delle riprese principali. Una melodia malinconica che appare prima suonata dal Matto sul violino e poi, appunto, da Gelsomina con la sua tromba, attraverso quattro differenti ma molto simili temi musicali. Dei leitmotiv che non si sovrappongono mai sulla scena ma che invece vanno a svilupparsi come un significante che accumula e comunica un significato non esplicito nelle immagini e nei dialoghi.
Non ci sarebbe mai stato La Strada, però, senza Zampanò che di Gelsomina è l’opposto umano e valoriale. Se Gelsomina è l’innocenza e la purezza d’animo, Zampanò è la violenza e la corruzione dello stesso. I contorni caratteriali furono disegnati da Fellini sulla base di un personaggio della sua giovinezza a Rimini «C’era questo castratore di maiali che era noto in città per essere un vero donnaiolo. Si portava a letto tutte le ragazze. Una volta ne mise perfino incinta una e tutti dissero che quel bambino era il figlio del diavolo», ma per l’effettiva genesi del racconto, per la stesura dello script, bisogna andare un po’ oltre. Durante la lavorazione de I Vitelloni, infatti, Fellini e lo sceneggiatore Tullio Pinelli furono colti da quella che potremmo definire come una sincronicità creativa orgiastica.
A detta di Fellini: «Tullio era andato a trovare la sua famiglia a Torino. A quel tempo, non c’era l’autostrada tra Roma e il Nord e quindi dovevi guidare attraverso le montagne. Lungo una delle strade tortuose vide un uomo che tirava una carretta, una specie di carro coperto di telone. Una donnina minuta spingeva il carro da dietro. Quando tornò a Roma, mi raccontò cosa aveva visto e il suo desiderio di narrare le loro dure vite on the road. Era la stessa storia che avevo immaginato io, ma con una differenza cruciale: la mia si concentrava su un piccolo circo itinerante con una giovane donna semplice di nome Gelsomina. Così abbiamo unito i miei personaggi da circo morsi dalle pulci con i suoi vagabondi di montagna fumosi attorno al fuoco da campo».
Lo script vide così la luce con Pinelli ed Ennio Flaiano il cui draft preliminare fu poi consegnato nelle mani dell’executive Luigi Rovere che quando iniziò a leggerlo si commosse fino alle lacrime. Almeno all’inizio, perché alla fine della lettura de lo script de La Strada gli disse senza fronzoli: «È bellissimo, ma come film non farebbe una lira, non è cinema». Fellini, Pinelli e Flaiano non si fermarono comunque, confezionando uno script di 600 pagine comprensivo di inquadrature, movimenti di camera e note esplicative che rifletterono un intenso lavoro di ricerca e cura del dettaglio. L’executive Lorenzo Pegoraro ne fu conquistato e diede il via libera alla produzione con Dino De Laurentiis e Carlo Ponti che diedero perfino un anticipo in contanti, ma con un’avvertenza: non sarebbe stata Giulietta Masina ad interpretare Gelsomina.
La Ponti-De Laurentiis Cinematografica voleva, infatti, Silvana Mangano e Burt Lancaster come protagonisti. Di parere contrario Fellini che non avrebbe mai accettato di realizzare il film senza la Masina che della creazione de La Strada è stata l’unica e la sola ispirazione. Per Zampanò sperò fino all’ultimo di ingaggiare un attore non professionista tanto da provinare una schiera semi-infinita di uomini da circo. Lo stesso dicasi per il Matto – ruolo poi andato a Richard Basehart che lo rese iconico, giocoso e chapliniano – ma per cui in origine ci sarebbe dovuto essere Alberto Sordi. Nonostante il benestare della produzione, l’amicizia che li legava e i precedenti de Lo Sceicco Bianco e I Vitelloni, fu Fellini stesso a dire di no ritenendolo non adatto al ruolo. Inevitabilmente tra i due piombò il silenzio.
Alla fine, Fellini scelse i suoi tre attori principali tra le persone associate a Donne proibite di Giuseppe Amato del 1954, in cui la Masina interpretava il ruolo molto diverso di una madama, Basehart era spesso sul set in visita alla moglie, l’attrice Valentina Cortese, e infine proprio Anthony Quinn che gli fu introdotto dalla stessa Masina. Lì per lì Quinn rimase interdetto da Fellini e la sua insistenza: «Pensavo fosse un po’ pazzo e gli dissi che non ero interessato alla parte, ma lui continuò a perseguitarmi per giorni». Non molto tempo dopo, Quinn trascorse la serata con Roberto Rossellini e Ingrid Bergman a cui raccontò di Fellini e di Zampanò. Dopo cena gli fecero vedere I Vitelloni così che capisse con chi avrebbe potuto lavorare se se ne fosse davvero convinto.
Quinn fu completamente travolto dalla visione del film: «Ne rimasi folgorato. Ho detto loro che I Vitelloni era un capolavoro e che lo stesso regista era l’uomo che mi aveva inseguito per settimane!». Di lì a poco iniziò la lavorazione vera e propria de La Strada con Fellini e Basehart che fecero location scouting tra trattorie e luoghi sperduti perché per prima cosa serviva la giusta atmosfera sul set. Iniziate le riprese nell’ottobre 1953, queste furono rallentate nel giro di un paio di settimane dopo che la Masina si slogò la caviglia a seguito di un incidente sul set con Quinn. De Laurentiis e Ponti colsero l’opportunità per sostituirla, specie considerando che non era ancora sotto vincolo contrattuale. Dovettero ricredersi quando i dirigenti della Paramount Pictures – che del film curarono la distribuzione per il mercato statunitense – lodarono la sua performance nei giornalieri fino a quel punto prodotti.
E da quel momento cambiò tutto per la Masina e La Strada. Ponti e De Laurentiis le fecero firmare in fretta e furia un accordo in esclusiva per un compenso di un terzo di quello di Quinn. Un fatto di non poco conto se consideriamo che Quinn era già un veterano di Hollywood, nonché fresco vincitore dell’Oscar al miglior attore non protagonista per Viva Zapata!. Il ritardo causò una totale revisione del piano di lavorazione, a questo punto spostata al febbraio successivo con temperature che toccarono i 5 gradi sottozero. Il risultato fu che Quinn, per non perdere il ruolo di Zampanò, fu costretto a dividere le proprie giornate di riprese con il film di Fellini al mattino e Attila di Pietro Francisci – per cui fu scritturato nel ruolo principale – nel pomeriggio e sera senza mai riuscire a fermarsi.
Un’esperienza così descritta dall’attore: «Questo programma spiegò l’aspetto emaciato che avevo in entrambi i film, un aspetto che era perfetto per Zampanò ma non andava bene per Attila l’Unno». Non è un caso, quindi, se oggi, a settant’anni di distanza, siamo qui a parlare de La Strada di Fellini e non di Attila di Francisci. Un poema incompiuto di un maestro narratore. Una narrazione leggera e armoniosa che cresce su piccoli dettagli, annotazioni sottili e toni morbidi di una storia solo apparentemente priva di azione nella sua eloquenza poetica eppure sorretta di sottile forza emotiva. Un’opera di rottura rispetto agli abituali schemi del Neorealismo e le sue richieste ideologiche – non ci sono inclinazioni politiche né esigenze realiste nell’opera di Fellini – eppure dalla struttura fragile, frammentaria, coloratissima ma artificiale nei suoi momenti di sporca bellezza, semplicemente meravigliosa nella sua purezza.
In questo la pensava così lo stesso Fellini che ha sempre inquadrato in maniera intima La Strada in funzione dell’impatto che il film ha avuto su di lui e sulla sua cinematografia: «Soprattutto perché ritengo che sia il mio film più rappresentativo, quello più autobiografico, per ragioni sia personali che sentimentali. È il film che ho avuto più difficoltà a realizzare e che mi ha creato più difficoltà quando è arrivato il momento di trovare un produttore». Dello stesso avviso la Masina che andò oltre vedendo in ognuno dei tre agenti scenici del film il marito Federico: Da bambino (Gelsomina) che contempla la natura e da adulto (Zampanò e Il Matto) nelle sue peculiarità e nel suo voler far sempre ridere tutti. L’anno successivo sarà la volta de Il Bidone con un Broderick Crawford da antologia, ma quella è tutta un’altra storia…
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