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L’intendente Sansho | Kenji Mizoguchi e la lezione umana di un capolavoro assoluto

Yoshiaki Hanayagi, Kyôko Kagawa, l’allegoria e le parole di Martin Scorsese. Rileggere un mito

Eitarô Shindô è L'Intendente Sansho nel capolavoro di Kenji Mizoguchi del 1954
Eitarô Shindô è L'Intendente Sansho nel capolavoro di Kenji Mizoguchi del 1954

ROMA – Prima che dei temi trattati e della cifra stilistica, sono i numeri a dirci che il cinema di Kenji Mizoguchi è qualcosa di profondamente sacro per qualsiasi cinefilo e regista in erba. Sono ottantasei, infatti, i film da lui realizzati nell’arco di una carriera straordinaria tra il 1923 di Ai ni yomigaeru hi e il 1956 di La strada della vergogna. Un cinema universale, totale, eterno quello di Mizoguchi, caratterizzato di opere difficilmente incasellabili in specifici generi squisitamente nipponici come il jidai-geki o lo shomin-geki, eppure tutte dotate di raro perfezionismo stilistico rigoroso e austero nel disegnare poemi dalla tela sociale varia che viaggiano dalle profondità più basse del mondo delle geishe e della prostituzione alle vette della società aristocratica, focalizzandosi sulla condizione storica delle donne nella società giapponese tra tenerezza e (dis)umanità.

Kyôko Kagawa in un momento de L'Intendente Sansho
Kyôko Kagawa in un momento de L’Intendente Sansho

Tra questi c’è proprio L’Intendente Sansho del 1954, uno dei capolavori assoluti del suo periodo finale di cui citiamo La vita di O-Haru – Donna galante, I racconti della luna pallida d’agosto, Gli amanti crocifissi e La strada della vergogna, ispirato a un originale letterario. L’omonimo racconto breve dello scrittore del Novecento giapponese Mori Ōgai su un fratello e una sorella del periodo Heian – Zushio (Yoshiaki Hanayagi) e Anju (Kyôko Kagawa) – che, in viaggio per incontrare il padre esiliato, vengono separati dalla madre e venduti come schiavi. Rispetto all’opera originaria, però, Mizoguchi e lo sceneggiatore Yoshikata Yoda scelsero di apportare modifiche sostanziali in modo da enfatizzare maggiormente la componente drammaturgica del racconto cinematografico. La storia di Mori, infatti, era, in modo austero, uno studio sulla ricongiunzione di una madre e un figlio che, ritrovandosi, giungono infine a comprendere il significato del loro destino.

Una scena del film
Una scena del film

Nell’opera originaria, però, Zushio è più giovane della sorella di un paio d’anni. Non ne L’Intendente Sansho di Mizoguchi, dove invece viene reso di appena due o tre anni più grande di lei. Un’innovazione di non poco conto perché sarà proprio questa differente dimensione caratteriale fraterna a renderlo diverso e nuovo. Da giovane adulto, infatti, Zushio verrà corrotto e condannato dall’ambiente circostante sino a diventare un fidato dell’intendente: la più nera delle anime nere. Un uomo marcio fino all’osso capace di brandire il ferro marchiante quando necessario e di non battere ciglio quando gli schiavi intorno a lui sono in preda al panico perché oppressi dal sistema. L’impianto narrativo originale di Mori viene qui sostenuto e potenziato da uno sviluppo che racconta non solo di una semplice ricongiunzione a cavallo di decenni, ma di autentica redenzione di un uomo in brandelli riportato miracolosamente indietro dalla dannazione.

L'Intendente Sansho di Kenji Mizoguchi fu presentato in anteprima mondiale a Venezia 15 il 2 settembre 1954
L’Intendente Sansho di Mizoguchi fu presentato a Venezia 15 il 2 settembre 1954

Un viaggio identitario, quello di Zushio, fatto di nomi nuovi e retaggi bruciati e riscoperti, legami dissolti e altri recuperati, corruzione e purezza d’animo, ma sempre nel segno degli insegnamenti del padre Taro (Akitake Kôno) che de L’Intendente Sansho sono il leitmotiv tematico: «Senza pietà, l’uomo è come una bestia. Anche se sei duro con te stesso, sii misericordioso con gli altri. Gli uomini sono creati uguali. A nessuno dovrebbe essere negata la felicità». Su di esso, infatti, Mizoguchi costruisce un’opera realistica e cruda, costellata di silenzi e movimenti di macchina impercettibili, dissolvenze delicate e composizioni d’immagine poetiche e pittoresche in ripresa lunga, eppure non priva di sentimento, commozione e forza allegorica. Nel passato remoto del periodo Heian narrativo si può leggere il presente storico della Seconda Guerra Mondiale dove le atrocità del complesso medievale degli schiavi vanno ad intersecarsi con le terribili crudeltà dei campi di concentramento.

Yoshiaki Hanayagi e Kinuyo Tanaka nel memorabile finale de L'Intendente Sansho
Yoshiaki Hanayagi e Kinuyo Tanaka nel finale de L’Intendente Sansho

Tra le corde della sua narrazione, L’Intendente Sansho si pone come manifesto politico di puro liberalismo che stabilisce legge, scelta e libertà là dove ci sono tirannia, schiavitù e prigionia. Un film universale che a distanza di settant’anni da quel 2 settembre 1954 che lo vide presentato in concorso a Venezia e vincitore ex-aequo del Leone d’argento con Federico Fellini (La Strada), Akira Kurosawa (I Sette Samurai) ed Elia Kazan (Fronte del Porto), proprio non vuole smettere di stupire. Proprio come il cinema di Mizoguchi su cui Martin Scorsese ha usato parole al miele per raccontarne l’essenza: «È stato uno dei più grandi maestri del mezzo cinematografico. Tutta la sua arte è incanalata nella più straordinaria semplicità. Ti trovi faccia a faccia con qualcosa di misterioso, tragicamente inevitabile e poi, alla fine, pacificamente rimosso…».

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