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I Vitelloni | Alberto Sordi, quella pernacchia e i settant’anni del cult di Fellini

La lavorazione, Vagabondi!, il retaggio e quel ruolo mancato di Vittorio De Sica. Rileggere un classico

Alberto Sordi e la banda de I Vitelloni di Federico Fellini: 70 anni di un classico
Alberto Sordi e la banda de I Vitelloni di Federico Fellini: 70 anni di un classico

ROMA – «Da quando ho fatto La Dolce Vita c’è sempre qualche produttore che, puntualmente, torna alla carica per propormene una variazione, un riciclaggio, un seguito: filone pressocché inesauribile date le combinazioni che si potrebbero ottenere con il sostantivo vita e l’aggettivo dolce. Dopo I Vitelloni è successa la stessa cosa». E del resto non poteva essere altrimenti. A Venezia infatti – dove la pellicola fu presentata in concorso il 26 agosto 1953 – per Federico Fellini arriverà la gloria dopo Lo sceicco bianco, opera prima formidabile ma fortemente divisiva di critica-e-pubblico. Sarà Leone d’argento per I Vitelloni, risultato straordinario, non tanto per il valore dell’opera in sé – spaccato autobiografico di vita riminese, impropriamente episodico e dal sapore agrodolce sullo sfondo degli anni Cinquanta italiani industrializzati – quanto perché a un certo punto sembrava che non lo volesse produrre nessuno.

I Vitelloni di Federico Fellini fu presentato in concorso a Venezia 14 il 26 agosto 1953
I Vitelloni di Federico Fellini fu presentato in concorso a Venezia il 26 agosto 1953

Dopo aver completato un primo draft de La Strada con Tullio Pinelli nel 1952, Fellini presentò il progetto al produttore Luigi Rovere con cui era ancora sotto contratto. Non andò esattamente come ci si aspetterebbe. Dopo il tuonante flop de Lo sceicco bianco che per poco non pose fine alla carriera di Alberto Sordi come interprete, fece un passo indietro ritenendo La Strada improduttivo, inclassificabile in un genere specifico (Fellini ne parlò come «Una favola moderna di realismo magico»). In senso di amicizia – e di stima verso il genio di Fellini – però, Rovere girò lo script al produttore Lorenzo Pegoraro – che de Lo sceicco bianco era invece un grande estimatore – e che tuttavia fu dello stesso avviso: per La Strada tocca aspettare. Dalla sua però gli consigliò di sviluppare una commedia. Parte da qui il lungo viaggio de I Vitelloni, che oggi tra l’altro trovate in streaming solo su Infinity+ e su Prime Video ma nel canale CineAutore.

Il film fu l'inizio dell'ascesa artistica di Fellini, consolidata con La Strada
Il film fu l’inizio dell’ascesa di Fellini, consolidata con La Strada

Nello specifico da una sessione di brainstorming tra Fellini, Ennio Flaiano e Tullio Pinelli in particolare che abbozzò una piccola idea primordiale: «I piaceri e le frustrazioni di crescere in una città di provincia» arricchita in fase di scrittura da ricordi adolescenziali veri o solo immaginati. Poi il titolo – I Vitelloni per l’appunto – scelto da Fellini in persona dopo che una volta un’anziana lo apostrofò così, in senso di disapprovazione per uno dei suoi scherzi. «Chi sono I Vitelloni? I disoccupati della classe media, gli animali domestici della mamma. Giovani imberbi che vedi brillare durante le festività natalizie la cui attesa li occupa per tutto il resto dell’anno». Dello stesso avviso Flaiano che in una lettera del 1971 ne parlò come: «Ai miei tempi ci si riferiva al vitellone come un giovane di famiglia modesta, forse uno studente che o era già andato fuori corso o non frequentava».

Franco Fabrizi e Leonora Ruffo, il cuore de I Vitelloni
Franco Fabrizi e Leonora Ruffo, il cuore de I Vitelloni

Entrando più nello specifico: «Derivava dalla parola vudellone, intestino crasso, ovvero una persona che mangia molto. Era un modo per descrivere il figlio di famiglia che mangiava e basta, senza produrre, come un intestino in attesa di essere riempito». Eppure la distribuzione dell’epoca, l’ENIC – Ente Nazionale Industrie Cinematografiche, proprio non voleva saperne, a detta di Fellini: «A un certo punto ci consigliarono un altro titolo: Vagabondi!, con il punto esclamativo alla fine. Dissi che andava benissimo, però suggerivo di rafforzare l’invettiva con un vocione da orco che sulla colonna sonora tuonasse: Vagabondi! Accettarono il titolo solo quando Pegoraro gli diede altri due film che consideravano sicuramente commerciali». Come se non bastasse però, l’ENIC pose un diktat: che non comparisse il nome di Alberto Sordi nei manifesti promozionali: «Fa scappare la gente, dicevano, è antipatico, il pubblico non lo sopporta».

In origine si sarebbe dovuto intitolare: Vagabondi!
In origine si sarebbe dovuto intitolare: Vagabondi!

A peggiorare le cose le altre scelte di casting. Fellini scelse Leopoldo Trieste per il ruolo del romantico drammaturgo in erba Leopoldo Vannucci, e suo fratello Riccardo (di Fellini nda) nei panni del Vitellone omonimo, un totale sconosciuto. Lo stesso non poteva dirsi per Franco Fabrizi, Franco Interlenghi e quella Leonora Ruffo fresca del successo de La Regina di Saba. Per Lida Baarová invece era la storia d’amore con il nazista Joseph Goebbels a parlare per lei più dei ruoli cinematografici. Da qui l’intuizione, affidare una parte a Vittorio De Sica. In origine infatti sarebbe dovuto essere lui volto-e-corpo del capocomico Sergio Natali (poi andato ad Achille Majeroni nda). Fellini ne alleggerì i toni omosessuali della caratterizzazione rispetto al primo draft e De Sica accettò la proposta purché fosse scritto: «Con una forte dose di umanità». Nonostante tutto, arrivati alle pendici della lavorazione, De Sica si tirò indietro.

Uno dei campi lunghi evocativi della pellicola
Uno dei campi lunghi evocativi della pellicola

Il motivo? È presto detto: temeva sarebbe stato marchiato come effettivamente omosessuale. Dello stesso parere Fellini secondo cui, a conti fatti: «De Sica sarebbe stato troppo simpatico, troppo affascinante e…troppo distraente» in quell’affresco corale-caratteriale de I Vitelloni. Lavorazione – definita da Fellini «Una produzione itinerante» e dal budget ridotto che lo ha costretto a girare, spesso, in ambiente naturale – che finì presto con l’adattarsi al programma degli spettacoli di varietà dello stesso Sordi che chiese a Fellini e alla sua troupe di seguirlo di città in città per tutta l’Italia. Il resto lo fece uno stile registico caratterizzato, prevalentemente, di carrellate lente che «Corrispondono alle vite svogliate e senza scopo» dei suoi protagonisti, con un occhio registico che si insinua spesso, nella scena, attraverso delicate zoomate con cui sottolineare particolari momenti drammatici, e malinconici e desolanti campi lunghi.

Il momento della partenza
Il momento della partenza

E quindi il montaggio, con tagli bruschi per le sequenze brevi e dissolvenze delicate per quelle più lunghe. Tutto in funzione di quello che Fellini non esitava a definire come: «(Uno schema nda) governato da una propria logica narrativa interna» così come erano intessute, le immagini. Momenti poetici e duri, veri, senza filtri, di risate vuote, fughe d’amore, tradimenti e supercazzole di umanità disumana e deviante che raccontano il dramma comune di un gruppo di uomini – un gruppo di amici, personaggi smontati e smagati – dalle vite illuse, incoscienti, destinate all’incompiutezza per mancanza di fiducia, di coraggio, o più semplicemente di andare altrove. Un’opera, I Vitelloni, che tuttavia, oggi più di ieri, settant’anni dopo, sembra vivere di un retaggio falsato. Di primo acchito, a ripensare al film, viene subito in mente l’iconica sequenza «Lavoratori!» con protagonista un Sordi in scioltezza nei suoi perfetti tempi comici.

«Lavoratori!», la scena chiave de I Vitelloni
«Lavoratori!», la scena chiave de I Vitelloni

Una pernacchia, uno sbeffeggio, il gesto dell’ombrello ai lavoratori della mazza, e il suo status di attore repellente ai produttori finì con il dissiparsi (un anno dopo arriverà Un Americano a Roma nda). Sordi rese leggendario il suo Alberto mostrandone fragilità e punti di forza, comicità allo stato puro e il lato oscuro di una vita impossibile da raddrizzare. L’intera sequenza si prese con forza l’intero corpus I Vitelloni e forse erroneamente, perché va valutata quella sequenza. In termini di montaggio si inserisce – a forza – nel suo momento topico spezzandone il naturale sviluppo patetico. Quel climax struggente che vede il Fausto di uno stratosferico Fabrizi redimersi dopo una vita di azioni sconsiderate, incurante delle conseguenze verso gli altri e verso Sandra (una commuovente Leonora Ruffo) in particolare. Tutte le scappatelle, le fughe, le notti a vagabondare, tutto finisce lì, in quella presa di coscienza.

La pellicola fu distribuita nei cinema italiani il 17 settembre 1953
La pellicola fu distribuita nei cinema italiani il 17 settembre 1953

Fausto riconquista Sandra, in un ravvedimento che Fellini rende sincero, di autentico dolore provato, che solo il futuro narrativo lontano dall’occhio della cinepresa – e presente e vivo, invece, nella fantasia dello spettatore – potrà rendere vero. Quell’occhio però Fellini decide di farlo andare oltre, verso il Moraldo di Interlenghi, il buono e giudizioso della banda de I Vitelloni, dandogli l’opportunità di un viaggio, di un nuovo (incerto) inizio. Una sequenza preziosa, intrisa di elementi autobiografici. Al punto che la voce che sentiamo nella battuta finale – «Addio Guido!» – non è quella dello stesso Interlenghi, ma di Fellini. Quasi come a voler rivivere, attraverso il mezzo filmico, il sapore e le sensazioni di quel viaggio che lo portò a Roma – da Rimini – il 4 gennaio 1939, assieme a sua madre Ida. E in teoria sarebbe dovuto continuare il percorso narrativo del “suo” Moraldo. Moraldo Rubini per la precisione.

Fabrizio Interlenghi nel climax de I Vitelloni
Fabrizio Interlenghi nel climax de I Vitelloni

Esattamente come il Marcello Rubini reso leggenda da Marcello Mastroianni ne La Dolce Vita. In origine infatti Fellini avrebbe voluto realizzare un sequel de I Vitelloni dal titolo Moraldo nella Città, dove l’agente scenico di Interlenghi avrebbe sperimentato per la prima volta la vita della Capitale comprendendone frustrazione, dolore e disillusione. Lo script, redatto da Fellini, non vide mai la luce. Chi ebbe la fortuna di leggerlo vi notò similitudini con Le notti di Cabiria e La Dolce Vita. E un sequel sembrava essere l’unica soluzione possibile in effetti. La differenza la fece La Strada. Dopo il successo di quello stesso film che tutti, dapprima, ritenevano irrealizzabile, i produttori fecero a gara per proporre a Fellini di rivedere l’accoppiata Zampanò-Gelsomina: «Tutti volevano Gelsomina. Qualsiasi cosa purché ci fosse lei nel titolo», ma Fellini era già proiettato su Il Bidone e quella è tutta un’altra storia…

  • LONGFORM | La Dolce Vita, o di quando Fellini cambiò per sempre il cinema
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  • LONGFORM | 8½, i sessant’anni del capolavoro di Federico Fellini

Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

 

 

 

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