ROMA – All’età di soli sei anni, Merian C. Cooper rimase affascinato dai gorilla. Il merito fu di uno zio che nel 1899 gli regalò un libro intitolato Esplorazioni e avventure nell’Africa equatoriale scritto dall’antropologo Paul Du Chaillu nel 1861. In uno dei tanti episodi Du Chaillu raccontò di un incontro ravvicinato con un gorilla descritto come: «Il Re della foresta africana. Una creatura da sogno infernale, metà uomo e metà bestia, dalle dimensioni straordinarie. Invincibile». In quel momento, in quel preciso istante, nacque King Kong. Era lì, vivido, nella mente di Cooper, ma ci vorrà del tempo prima di vederlo in pellicola e poi animato a mezzo filmico. E ci arriverà al cinema. Non prima però di una carriera bellica onorevole che lo vide distinguersi tra le forze armate statunitensi durante la Grande Guerra prima e nella Kościuszko Squadron durante la Guerra sovietico-polacca poi.
Per capirci, le gesta polacche di Cooper furono talmente da leggenda – sopravvisse nove mesi in un campo di prigionieri di guerra russo prima di fuggire nel 1921 in Lettonia – che il regista Leonard Buczkowski ne trasse ispirazione per realizzare un film: Gwiaździsta eskadra il suo titolo, noto anche come The Starry Squadron. Datato 1930 – e tristemente andato perduto dopo l’occupazione sovietica in Polonia dopo la Seconda Guerra Mondiale – era ritenuto il più costoso film muto mai realizzato dall’industria cinematografica polacca. Di ritorno alla vita civile ottenne un lavoro come redattore del turno di notte al The New York Times per poi scrivere articoli per la rivista Asia. In uno dei suoi incarichi si recò in Abissinia per intervistare Ras Tefari, noto anche come Imperatore Haile Selassie I. Con lui, in quel viaggio africano, c’era Ernest B. Schoedsack, che di King Kong sarà poi il co-regista.
Di quel viaggio si raccontò l’incredibile. Basti sapere che sulla via del ritorno la nave su cui viaggiarono Cooper e Schoedsack, la Wisdom II, fu assaltata dai pirati, saccheggiata e infine bruciata. Nel 1924 Cooper e Schoedsack affiancarono la giornalista, nonché ex-spia, Marguerite Harrison, in una spedizione per l’American Geographical Society. L’obiettivo era documentare lo stile di vita dei Bakhtiari, popolo nomade tra Turchia e Persia. Decisi a filmare la loro impresa, ne venne fuori un ambiziosissimo documentario etnografico che attirò l’attenzione di Jesse Lasky della Paramount che ne acquistò i diritti nel 1925 sotto il titolo di Grass, vale a dire, la prima produzione cinematografica accreditata del duo. Ne seguirà un’altra che avvicinerà tematicamente Cooper e Schoedsack al loro capolavoro, Chang, film muto del 1927 su un giovane contadino thailandese alle prese con minacce selvatiche di ogni specie, nessun gorilla però, per quello ci sarà King Kong.
Nel biennio successivo, Cooper si allontanò dalle luci di Hollywood quando fu nominato membro del CdA della PanAM. Questo fino al 1930, poi cambiò qualcosa. Una notte si sorprese a sognare un gorilla gigante a New York. Ma non un gorilla qualunque. Era uno dei gorilla di Du Chaillu, di quelli che lo fecero emozionare da bambino: l’origine di King Kong (disponibile su Rarovideo Channel che trovate sia su Prime Video che su The Film Club). Il resto lo fece l’esperienza sul set africano di The Four Feathers del 1929 che lo vide entrare in contatto con dei babbuini. Quel film lo produsse David O. Selznick che l’anno successivo, da vicepresidente della RKO Pictures, lo volle come con sé. Parallelamente un amico di Cooper, il naturalista William Douglas Burden, pubblicò un libro di avventure (Dragon Lizards of Komodo) su un’animale selvatico nella foresta africana del Congo denominato King Komodo.
Cooper fu talmente travolto dalla lettura da immaginare il gorilla gigante dei suoi sogni lottare contro King Komodo. A quel punto da «Congo» a «Kongo» e King Komodo, non ci volle molto prima che il suo gorilla venisse battezzato come King Kong. Parole semplici, efficaci, nette e dal suono misterioso, presto divenute leggendarie. E con il pitch ufficialmente presentato nel dicembre 1931, arrivò per Cooper la certezza che quell’emozione provata da bambino sarebbe presto diventata un film, o per meglio dire: «Un film di gorilla del terrore». Selznick mise in cantiere il progetto ingaggiando per lo script lo scrittore giallo Edgar Wallace che buttò giù un primo draft sotto il titolo di The Beast. Agli executive della RKO non piacque un granché, suggerendo un Jungle Beast che ottenne ancora meno consensi. Soprattutto da parte di Cooper che credeva nel titolo personalissimo alla maniera di Frankenstein e Dracula.
A suo dire il film avrebbe funzionato solo se si fosse chiamato come la sua creatura protagonista, ovvero: «Il nome della principale creatura misteriosa, romantica e selvaggia della storia», in due parole: King Kong. RKO inviò un promemoria a Cooper suggerendo dei titoli che combinassero il suo King Kong con delle soluzioni ideate da Selznick (Kong: King of Beasts, Kong: The Jungle King, Kong: The Jungle Beast). Con il benestare di Cooper si andò verso Kong, tanto che la sceneggiatrice Ruth Rose intitolò così il suo draft. A fermare tutto ci pensò Selznick che, in virtù dei precedenti lavori registici di Cooper – ovvero Grass e Chang –, temeva che il solo Kong sarebbe stato recepito da critica e pubblico come un documentario. Pensò bene così di anteporre la parola King, esattamente come Cooper aveva indicato sin dall’inizio. Quel draft datato gennaio 1932 sarà l’ultimo (e definitivo) per King Kong.
Fu proprio nell’ultimo draft che Cooper inserì l’iconica scena in cui Kong combatte in cima all’Empire State Building contro una pattuglia di aerei biplani dell’aviazione. Un’intuizione avuta da Cooper dopo che vide un aereo sorvolare quello che al tempo era ritenuto l’edificio più alto del mondo, il New York Insurance Building: «Senza alcuno sforzo cosciente di pensiero, ho immediatamente visto con gli occhi della mente un gorilla gigante in cima all’edificio» disse Cooper in merito. Ci sarebbe dovuta essere anche la sequenza di Kong in lotta contro un mastodontico drago di Komodo così da omaggiare l’influenza letteraria di Burden. All’ultimo fu rimossa e per una ragione narrativa ben precisa: «Avevo la ferma intenzione di rendere giganteschi sia il gorilla che il drago, davvero enormi. Ho sempre creduto però nella personalizzazione e nel focalizzare l’attenzione su un personaggio principale e fin dall’inizio di King Kong volevo che fosse il gorilla».
Quell’idea però, quell’intuizione, fu conservata e convertita infine nella celebre sequenza del risultato finito King Kong che vede Kong combattere contro il tirannosauro sull’Isola del Teschio. A cambiare è anche la percezione del gorilla a cui Cooper diede dei contorni caratteriali allegorici di tutto rispetto, tanto da riferirsi a lui – e di conseguenza anche alla portata narrativa del racconto – come: «Un gigantesco gorilla semi-umanoide contrapposto alla civiltà moderna». Ecco, se è vero che nel suo sfolgorante retaggio novantennale King Kong è stato ritenuto, ora una rilettura moderna della fiaba La bella e la bestia, ora un racconto ammonitore sul romanticismo interrazziale in cui: «Il portatore di oscurità non è un essere umano ma una scimmia», una preziosa e definitiva chiave di lettura ci viene offerta proprio da Cooper che in un’intervista rivelò la reale intuizione a proposito del climax e di riflesso di tutto il film.
«Ho realizzato che se avessi messo un gorilla gigante in cima all’edificio più alto del mondo e lo avessi fatto abbattere dalla più moderna delle armi, l’aeroplano armato, avremmo automaticamente avuto la storia del primitivo condannato dalla civiltà moderna» e quindi di un King Kong la cui base narrativa è null’altro che il conflitto più antico del mondo: il rapporto inesorabilmente dicotomico tra tradizione e innovazione, qui reso in chiave allegorica sullo sfondo di un racconto meta-cinematografico a metà tra Cenerentola e È nata una stella. Una narrazione avventurosa e totalizzante che cova al suo interno sentimenti senza tempo romantici e cinici di emancipazione e ambizione tra maschilismo selvaggio e xenofobia svelandoceli in modo semplice, incisivo e diretto. Avviata la lavorazione – e con accanto il fido Schoedsack che si occupò di raccordi registici e di elementi di contorno – tra Cooper e la RKO scoppiò un’autentica battaglia creativa.
A detta delle note di produzione degli executive King Kong sarebbe dovuto partire introducendo Kong agli spettatori in modo da catapultarli immediatamente al centro del conflitto. Un’opinione condivisibile considerando che, andando a leggere gli appunti di Cooper, Kong fu descritto inizialmente come: «Un gorilla da incubo. Le sue mani e i suoi piedi hanno le dimensioni e la forza di pale a vapore, la sua circonferenza è quella di una caldaia a vapore. Questo è un mostro con la forza di cento uomini. Ma più terrificante è la testa, una testa da incubo con occhi iniettati di sangue e denti frastagliati incastonati sotto un folto tappeto di capelli, una faccia metà bestia metà umana. Voglio che sia la cosa più feroce, brutale e mostruosa che sia stata mai vista!». Con la progressiva presa di coscienza di Cooper della significazione allegorica del suo protagonista se ne smussarono i contorni.
L’obiettivo? Stimolare l’empatia nello spettatore. Non stupisce quindi come, dinanzi alle richieste della RKO, Cooper abbia fatto muro in modo da proteggere la rivelazione del protagonista del suo King Kong: «Voglio che il film abbia un lento sviluppo drammatico che stabilisse tutto, dai personaggi all’umore, in modo che l’azione del film potesse naturalmente e inesorabilmente uscire dal proprio movimento creativo» così da favorire una crescita del conflitto graduale e che desse il giusto respiro drammatico a tutte le componenti. Ci vide bene e non solo su quell’aspetto. Dopo una post-produzione curiosa che vide Murray Spivak mixare il ruggito di Kong mescolando ruggiti di leoni e tigri in cattività riprodotti in reverse e realizzare il suono dei suoi passi pesanti calpestando una scatola piena di ghiaia con stantuffi avvolti in schiuma attaccati ai piedi, un test-screening datato gennaio 1933 fece fuggire il pubblico terrorizzato per via di una scena raccapricciante.
Quattro uomini, dei marinai, stanno attraversando una fossa profondissima su di un ponte di corda molto accidentato. Kong interviene rompendo il ponte e facendoli cadere dritti in bocca a dei ragni giganti che ne lacerano i corpi. Secondo il folklore di Hollywood la scena fu talmente forte per gli standard dell’epoca da scatenare disgusto e fuga dalla sala. Cooper quella scena la eliminò personalmente dal montaggio finale di un King Kong che, alla proiezione stampa del 2 marzo successivo, andò benissimo collezionando numerose recensioni entusiastiche. In particolar modo i critici elogiarono le tecniche animate in step-motion di Wallis H. O’Brien – il mentore di Ray Harryhauser per intenderci – e del suo assistente animatore Buzz Gibson, caratterizzate da movimenti minuziosi frutto delle particolari condizioni di luce sul set. Il solo leggendario combattimento tra Kong e il tirannosauro richiese sette settimane di lavorazione.
Distribuito nei cinema statunitensi il 7 aprile 1933, King Kong, a fronte di un investimento di RKO di poco meno di 673.000 dollari, incassò oltre 5 milioni e mezzo di cui 90.000 dollari al solo weekend di apertura. Una cifra esorbitante per il tempo che consegnò di diritto King Kong alla storia dei grandi successi al box-office e del cinema in sé. Specie considerando come l’opera di Cooper, partendo da un sogno e una suggestione da bambino, finì con il codificare – assieme al sequel The Son of Kong – la grammatica filmica del monster movie gettando le basi per capisaldi del genere come Godzilla. Su diretta ammissione del suo ideatore, Tomoyuki Tanaka: «Volevo fare qualcosa di grande. Questa era la mia motivazione, mi piacciono i film sui mostri e sono stato influenzato da King Kong». Un capolavoro leggendario in grado di stupire oggi come ieri, novant’anni dopo.
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Qui sotto potete vedere il trailer del film:
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