ROMA – Jean Seberg. L’americana. Jean Seberg. Il simbolo della Nouvelle Vague. Jean Seberg, il volto di JLG. Un’icona talmente forte da sembrare davvero francese, lei che invece era nata in un piccolo paese del Midwest, in una famiglia luterana di origini svedesi. Minuta, viso dall’ovale perfetto, occhi grandi e labbra carnose, Jean per un preciso momento ha incarnato lo spirito libero del cinema d’autore degli anni Sessanta, diventando suo malgrado una sorta di eroina, corpo perfetto per rappresentare e incarnare le inquietudini di una generazione incapace di definirsi. E allora dici Seberg e pensi a Parigi e a quella camminata con Jean-Paul Belmondo, dici Seberg e pensi al bianco e nero di un capolavoro assoluto come Fino all’ultimo respiro di Jean-Luc Godard. Dopo, nulla sarebbe stato più lo stesso. Né il cinema, né la sua vita.

E allora eccola la Parigi in bianco e nero del 1959 e il fumo delle sigarette, quella maglietta a righe e quella t-shirt con la scritta sopra, New York Herald Tribune, che farà moda per interi decadi. Eppure, Jean Seberg era molto di più di un frammento di cinema, è stata molto di più di quel fermo immagine. È stata una donna fragile, spesso in balia dei suoi sentimenti, delusa molte volte da un mondo che la vedeva solo come personaggio e che l’ha lentamente privata della sua umanità. Una figura complessa, meno epocale di Marilyn Monroe forse, ma con la quale ha comunque condiviso una tragica fine e la capacità di ammaliare il pubblico. Ed è proprio a lei e al suo mito che Kristen Stewart qualche anno fa ha cercato di rendere omaggio con Seberg – Nel mirino di Benedict Andrews, biopic di cui vi avevamo parlato qui e forse archiviato troppo in fretta (lo trovate a noleggio su Prime Video e AppleTV+). Un altro biopic su un’artista tormentata? Non proprio, visto che l’opera scritta da Anna Waterhouse e Joe Shrapnel raccontava un aspetto poco noto della vita di Jean.

Quale? La sua relazione con l’attivista afroamericano Hakim Jamal, cugino di Malcolm X, uomo di spicco del Black Power Movement, interpretato da Anthony Mackie. Una relazione che persino nei liberali Sixties venne osteggiata dall’opinione pubblica e (ovviamente) dall’FBI che mal sopportava tutte le contaminazioni tra esponenti dei gruppi legati alla difesa dei diritti e rappresentanti della cultura alta. Da una parte la dea bionda, emblema di una società in trasformazione, ribelle fino a prova contraria. Dall’altra, un uomo affascinante, amato dalle donne e salvato dalla politica, che poi conobbe il buio dell’ospedale psichiatrico fino al punto di perdersi più di una volta (finendo assassinato nel 1973). Per Jean, un irresistibile richiamo. Una sua cara amica una volta disse che Jean aveva sempre qualcosa su cui lavorare, non solo per migliorare sé stessa, ma tutta la società. Nel rapporto con Jamal, nome di battaglia di Allen Donaldson, la Seberg vedeva la possibilità di partecipare al grande cambiamento di un’epoca inquieta.

Come? Amando una persona che non avrebbe dovuto amare. Per il colore della pelle e per il fatto che fosse sposato. Si vocifera che la stessa moglie di Jamal chiamò un giorno il padre della Seberg, Ed, stimato farmacista di Marshalltown, Iowa, per supplicarlo di spingere la figlia a lasciarle il marito. Ma chi era davvero Jean Seberg? Appassionata di recitazione fin da giovane, debutta al cinema nei panni di Giovanna D’Arco per Otto Preminger in Santa Giovanna. Un imprinting poco tenero, quello attuato dal regista austriaco che sottopone la ragazza ad un tour de force estenuante. È il 1957 e per Jean si aprono le porte del cinema. Prima il meraviglioso Buongiorno tristezza!, sempre con Preminger, poi nel 1960 l’incontro con Godard e la partecipazione a Fino all’ultimo respiro, manifesto della nuova onda francese. Un ruolo così potente, quello di Patricia Franchini, compagna del malvivente Michel (Jean-Paul Belmondo) che quasi oscura tutta la carriera a venire, pur segnata da altre opere interessanti (Airport, La ballata della città senza nome), alcune anche per autori italiani come Nelo Risi (Ondata di calore) e Pasquale Squitieri (Camorra).

Nel 1958 il primo matrimonio, con François Moreuil che lascerà qualche anno dopo per il grande scrittore e regista Romain Gary (la cui vita è stata raccontata da un bel film con Pierre Niney, La promessa dell’alba, di cui vi avevamo raccontato qui). Sono anni difficili, in cui la Seberg vive le prime crisi depressive. L’unica gioia è la nascita del figlio Diego, avuto da Gary nel 1962, ma tenuto segreto perché l’uomo è sposato. In quel momento la Seberg inizia a maturare una coscienza politica forte, osteggia la guerra in Vietnam, si dichiara sostenitrice di Che Guevara e abbraccia la causa delle Pantere Nere. Nell’ottobre del 1968, l’incontro con Hakim Jamal. Per molti, Jamal è solo alla ricerca di una donna da cui farsi mantenere, ma Jean lo ama o almeno crede di farlo, fino a quando i due si lasciano. Nel 1970 la Seberg resta incinta dell’attivista Carlos Navarra e l’FBI decide di utilizzare l’informazione per metterla in cattiva luce (ufficialmente è sposata). Jean, allo stremo delle forze, con un nuovo esaurimento, dà alla luce una bambina, Nina, che muore dopo tre giorni. Il trauma è insopportabile. L’8 settembre 1979, quando risulta scomparsa già da dieci giorni, Jean Seberg viene trovata morta nella sua Renault, a Parigi, nel 16th arrondissement, poco lontano da casa sua. Aveva solo quarant’anni. Se andate a Parigi, passate dal cimitero di Montparnasse e portatele un fiore…
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