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Il Grande Lebowski | Jeff Bridges, i Coen e i venticinque anni di un cult che fu un flop

John Goodman e Steve Buscemi, la riscoperta, Mel Gibson, il tappeto. Riscoprire un mito (in sala)

Jeff Bridges e Julianne Moore in un momento di Il Grande Lebowski di Joel ed Ethan Coen, di nuovo al cinema dal 5 novembre per Cineteca di Bologna
Jeff Bridges e Julianne Moore in un momento di Il Grande Lebowski di Joel ed Ethan Coen.

ROMA – Se ci fermassimo ai semplici dati del botteghino del tempo ci sarebbe ben poco da commentare a proposito de Il Grande Lebowski di Joel ed Ethan Coen. Contando il solo risultato nelle sale statunitensi dove la pellicola fu distribuita il 6 marzo 1998, la sinergia Polygram e Working Title Films riuscì a rientrare a malapena del budget di 15 milioni di dollari stanziato in pre-produzione. Solo 18 milioni di incasso recitano i dati ufficiali, superato di pochissimo il break-even point. La differenza per i Coen la fece poi la distribuzione mondiale dove il film chiuse la sua corsa al botteghino con un totale di 46 milioni di dollari. Lo stesso accadde con i contributi critici della stampa di settore. Tra il Sundance e la Berlinale non si può dire però che Il Grande Lebowski – di nuovo al cinema dal 5 novembre per Cineteca di Bologna – abbia visto esattamente giorni felici dopo l’uscita.

Il Grande Lebowski fu presentato nei cinema statunitensi il 6 marzo 1998
Il Grande Lebowski fu presentato nei cinema americani il 6 marzo 1998

Il Daily Mail ne parlò come di un’idea stanca, il Guardian come di «un mucchio di idee infilate in una borsa (un po’ come le mutande sporche di Walter, nda) e lasciate fuoriuscire a caso. Il film è esasperante», il Toronto Star, nella figura di Peter Howell, ci andò giù pesantissimo: «È difficile credere che questo sia il lavoro degli stessi che nemmeno un anno fa hanno vinto l’Oscar con Fargo». Si ricredette però, ritrattando del tutto le dichiarazioni critiche della recensione del tempo. Nel 2011 infatti, tredici anni dopo quelle parole su carta, si riferì a Il Grande Lebowski come: «Probabilmente il mio film preferito dei fratelli Coen». E furono in tanti, a dire il vero, a pensarla così. Già nel 2000, nemmeno due anni dopo dall’uscita in sala, la pellicola divenne un cult tra i Midnight Movies registrando il tutto esaurito per settimane.

«Segna zero!» John Goodman nella sua interpretazione più memorabile (e divertita per sua stessa ammissione)
«Segna zero!». John Goodman nella sua interpretazione più memorabile (e divertita).

Talmente ramificato il retaggio venticinquennale de Il Grande Lebowski (a proposito, il film, in Italia, fu distribuito l’1 maggio 1998) da aver contribuito alla nascita di ben due festival annuali – lo statunitense Lebowski Fest e il britannico The Dude Abides – a base di maratone di bowling e svariati contest strampalati, e perfino di un culto religioso: il Dudeismo. Si tratta di un credo ideato nel 2005 da Oliver Benjamin dedito in gran parte alla diffusione della filosofia e lo stile di vita del Dude/Drugo reso immortale da uno scanzonato Jeff Bridges in scioltezza, come risposta agli eccessi della civiltà moderna. E del resto – e chi ama la pellicola lo sa bene – c’è come una profonda spiritualità che traspare tra le maglie narrative del racconto dei Coen che trova il suo apice proprio nell’ultima linea dialogica pronunciata dall’agente scenico di Bridges: «Drugo sa aspettare…».

A John Turturro come Jesus Quintana bastarono due scene in Il Grande Lebowski per diventare cult
A John Turturro come Jesus Quintana bastarono due scene per diventare cult

La più importante lezione che ci regala Il Grande Lebowski è quella di prendere la vita come viene. Non tanto accettandone il responso passivamente e/o senza far nulla per cambiarne le sorti, ma semplicemente agendo in funzione di quello che potremmo definire come un postmoderno Panta rei eracliteo per cui: «Tutto scorre, tutto si muove, nulla sta fermo». E noi siamo lì, come il Drugo, con una barca nel mezzo del fiume della vita, cercando di farci guidare dalle onde ma stando attenti a non farla mai rovesciare, magari aspettando solo tempi maturi. Concetti tutti capitalizzati dall’enigmatico Straniero di Sam Elliott in quella linea (ormai) leggendaria che della vita di tutti i giorni dovrebbe essere il mantra comune: «Sai, la vita…a volte sei tu che mangi l’orso, e altre volte invece è l’orso che mangia te…». Basterebbe solo questo a giustificarne il retaggio. Ma ovviamente c’è molto di più.

Steve Buscemi è il silenzioso Donny, in opposizione a Carl, il sicario loquace di Fargo
Steve Buscemi è il silenzioso Donny, in opposizione a Carl, il sicario loquace di Fargo

Ci sono nichilisti (finti) rapitori con una donna a nove dita che vanno in giro con una donnola al guinzaglio, pornografi senza scrupoli e pederasti con il codino e la rete ai capelli, Ford Torino arrugginite rubate, ritrovate e progressivamente sempre più distrutte (e infine date alle fiamme), Corvette sfasciate a colpi di piedi di porco semplicemente per dare una lezione e sceneggiatori di serial televisivi costretti a vivere in un polmone d’acciaio. E ancora White Russian da bere come fossero acqua, sequenze onirico-lisergiche, valli di lacrime, arte moderna dipinta con la vagina e tappeti che davano veramente un tono all’ambiente. E poi la colonna sonora che spazia da Hotel California nella versione dei Gypsy Kings a classici dei Creedence Clearwater Revival, passando per Dead Flowers nella versione di Townes Van Zandt e The Man In Me di Bob Dylan nei titoli di testa.

«Questo è un tuo compito Larry? Questo è tuo Larry? Questo è un tuo compito Larry?»
«Questo è un tuo compito Larry? Questo è tuo Larry? Questo è un tuo compito Larry?»

Tutte componenti amalgamate in una narrazione neo-noir che è il perfetto punto d’incontro tra le atmosfere dei romanzi classici di Raymond Chandler come quel Il Grande Sonno rievocato nel titolo («Volevamo qualcosa che generasse un certo sentimento narrativo, come una moderna storia di Chandler, è per questo che doveva essere ambientato a Los Angeles. Una storia episodica che si muovesse attraverso diverse parti della città e diverse classi sociali» disse Ethan al riguardo) e la rilettura operata da Robert Altman con Il Lungo Addio («Il Grande Lebowski vive ai margini di quel mondo» disse invece Joel) arricchito da ricalibrature scanzonate, ironiche, di comicità al grado zero nel puro stile dei Coen, di topos del genere che vanno dall’omonimia e lo scambio di persona come pietra narrativa, a femme fatale spinte dal Complesso di Elettra, mogli-trofeo, pedinamenti, finti rapimenti, valigette piene di soldi, personaggi pittoreschi e rivelazioni dell’ultimo minuto.

Una straordinaria Julianne Moore è Maude Lebowski in una scena del film
Una straordinaria Julianne Moore è Maude Lebowski in una scena del film

Al centro della scena il colorito Jeffrey Drugo Lebowski di cui i Coen disegnarono l’aura caratteriale sui contorni dell’executive Jeff Dowd. I Coen lo conobbero al tempo di Sangue Facile. Dowd fu uno dei membri dei Seattle Seven, amava bere White Russian e, manco a dirlo, era noto nell’ambiente cinematografico come Dude. Ma non solo, perché un’altra dichiarata fonte d’ispirazione per Lebowski fu Peter Exline, un veterano della guerra del Vietnam che i Coen conobbero grazie a Barry Sonnenfeld. Exline all’epoca viveva in una specie di bizzarro appartamento-discarica reso appena vivibile da un tappeto di cui andava parecchio orgoglioso. A suo dire: «Teneva bene la stanza…». L’incontro con i Coen fu uno dei punti cruciali nella genesi creativa de Il Grande Lebowski. Raccontò infatti loro la storia di un certo Lewis Abernathy, un collega attore-scrittore anch’egli veterano del Vietnam che scelse di riciclarsi come investigatore privato.

Jeff Bridges fu (incredibilmente!) la seconda scelta per il ruolo del Drugo, la prima era Mel Gibson
Jeff Bridges fu (incredibilmente!) la seconda scelta per il ruolo del Drugo. La prima? Mel Gibson

Exline chiese aiuto a lui per ritrovare la propria auto di cui denunciò la scomparsa poche settimane prima. Saltò fuori che a rubarla fu proprio un ragazzino delle medie. Quando la Polizia di Los Angeles lo informò che l’auto era stata ritrovata, Exline trovò sotto il sedile del passeggero nientemeno che un compito di sociologia dalla grafia illeggibile: praticamente uno degli snodi chiave della narrazione de Il Grande Lebowski. Come se non bastasse Exline era appartenente ad una lega amatoriale di softball. Qui i Coen scelsero di virare dritti verso il bowling: «È uno sport molto sociale in cui puoi sederti, bere e fumare mentre sei impegnato in conversazioni completamente inutili». Accanto a lui quel Walter Sobchak perennemente sopra le righe reso leggenda da un John Goodman in stato di grazia, liberamente ispirato ad Abernathy e al regista John Milius, a cui i Coen cucirono addosso l’anima comica della pellicola.

Il Grande Lebowski di Joel ed Ethan Coen torna al cinema dal 5 novembre per Cineteca di Bologna
Il Drugo e Walter, una coppia leggendaria

A proposito di Milius, i Coen lo conobbero durante la lavorazione di Barton Fink, che poi è il periodo in cui Joel ed Ethan iniziarono a delineare lo script de Il Grande Lebowski (all’epoca eravamo già dalle parti del mini-trattamento da 40 pagine). In origine infatti sarebbe dovuto essere il film successivo a Mister Hula Hoop. La differenza la fecero i conflitti di lavorazione di Goodman con Pappa e Ciccia e di Bridges con Wild Bill di Walter Hill. Bridges – qui meraviglioso e con tempi perfetti – in realtà non fu affatto la prima scelta per il Drugo. Il primo nome nella lista dei Coen era quello di Mel Gibson che però rispedì la proposta al mittente. Ripiegarono su Fargo. L’inizio del periodo d’oro creativo che troverà nel (ri)scoperto e aspettato Il Grande Lebowski l’assoluta consacrazione per un dittico da immortalità artistica e il film del cuore di milioni di appassionati.

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Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

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