ROMA – Poco più di vent’anni fa, mentre Michael Jordan veniva eletto santo, con tanto di aureola sospesa a tre metri da terra, insieme a quei discepoli che vestivano la canotta rossa dei Chicago Bulls, in sala arrivava il film spartiacque di uno dei più formidabili autori di fine millennio. Parliamo di He Got Game e di Spike Lee, uno che, avendo sia il cinema che il basket nel sangue – innamorato pazzo del blu e dell’arancione dei New York Knicks – decise di fondere le due arti, dirigendo (o meglio skretchando, passateci il termine), scrivendo e producendo quello che secondo noi di Hot Corn è il miglior film su cosa significhi la pallacanestro. E lo fa nel modo più semplice, prima di addentrarsi nella storia che è anche una frecciata al business, senza scrupoli, che gira attorno ai rookie, atleti che si ritrovano a dover scegliere la miglior University prima di essere lanciati tra le stelle.
Lee, che fino a quel momento aveva partorito, nel giro di pochi anni, Fa’ la cosa giusta, Malcolm X, Crooklyn e Clockers, ci trasporta, con un montaggio vibrante e i colori saturi, in una Coney Island analogica, sgualcita e malinconica (ieri come oggi), dove Jesus Shuttlesworth – interpretato dal campione Ray Allen -, il talento più cristallino della East Coast, deve decidere in quale college andare. Ma Jesus, che vive con la sorellina, non vuole essere influenzato da nessuno. Perché è testardo come il padre, Jack – un enorme Denzel Washington –, rilasciato dal carcere dove sta scontando una lunga pena, reo di aver ucciso la moglie, madre dei suoi figli. Jack ha tempo una settimana per convincere Jesus, con cui non ha più rapporti, di accettare la proposta della Big State University, tifata dal Governatore dello Stato di New York, con la promessa di un’uscita anticipata dalla sbarre.
Una di quelle storie che restano, incisa da uno Spike Lee in stato di grazia, profondo conoscitore della materia, coadiuvato da un’impalcatura musicale d’eccellenza, con i fiati del compositore Aaron Copland e le rime incessanti dei Public Enemy. E Lee, in apertura di He Got Game – che oggi trovate in streaming qui – illustra tutta la bellezza di questo sport. Non è importante chi tu sia, nero o bianco, donna o uomo, se tu stia giocando in un campetto di Harlem, con il cemento spaccato e le Nike sdrucite ai piedi, oppure in mezzo al Madison Square Garden, abbracciato dai flash. La palla a spicchi è, sempre e comunque, rotonda, universale, democratica. Potente e libera.
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