Hustle | Le rivincite di Adam Sandler e il basket in un film che spiega la vita

ROMA – Ecco l’ennesima prova: lo sport filtrato e rivisto attraverso la narrazione cinematografica è la metafora perfetta per parlare della vita e delle sue infinite, complesse sfumature. Come nel caso di Hustle, diretto da Jeremiah Zagar (distribuito da Netflix e prodotto tra gli altri da LeBron James), che dietro la figura del protagonista, Stanley Sugarman, costruisce un profondo ed emozionante film sul riscatto e sul valore delle emozioni. Imprescindibili e fondamentali quando si vogliono raggiungere obiettivi che appaiono impossibili. Dunque, tutto ruota attorno a Stanley, interpretato da un grande Adam Sandler, stropicciato ma infallibile talent scout per i Philadelphia 76ers, una delle squadre più passionali ma sfortunate della NBA (un po’ come i New York Kinicks…).

E qui il primo spunto: l’attore, dopo il folgorante ruolo di Uncut Gems – Diamanti Grezzi, dimostra ancora una volta di saperci fare, trovando una perfetta alchimia con un personaggio magistralmente scritto da Taylor Materne and Will Fetters. Insomma, lo sdrucito e imbolsito Stanley Sugarman è un’ulteriore riscossa per Sandler, divenendo per certi versi la sua estensione diretta, dopo certi ruoli che, ingiustamente, gli hanno fatto perdere credibilità. Stanley, infatti, è stufo di girare il mondo alla ricerca di giocatori. Mangia male, dorme poco e, soprattutto, vorrebbe passare più tempo con la sua famiglia. E poi c’è quel sogno che coltiva da una vita: diventare un coach. Del resto conosce bene il basket e le luci dell’NBA. La svolta arriva quando Rex Merrick (Robert Duval), presidente dei 76ers, gli offre il ruolo di Assistant Coach.

Purtroppo Rex muore poco dopo, e la poltrona finisce al figlio Vince (Ben Foster) che non ha mai tollerato l’anticonformismo di Stanley. L’intenzione è togliergli definitivamente la panchina, a meno che Stanley non trovi il giocatore mancante, quello che potrebbe colmare il gap e lanciare i Sixers verso il quarto titolo NBA – scelta vincente mettere al centro della vicenda uno dei team meno inflazionati della Lega. Un’ultima missione che porta Stanley in Spagna, dove in un campetto di periferia trova Bo Cruz (con il volto di Juancho Hernangómez, ala degli Utah Jazz prestato per l’occasione al cinema), un diamante grezzo con una figlia piccola ed una marcata emotività. Emotività che, una volta atterrato negli States, potrebbe giocargli brutti scherzi. Hustle diventa quindi uno sport movie che vira dritto verso una parafrasi che tratta l’amicizia e l’empatia: Stanley seguirà passo passo Bo, sacrificherà (quasi) tutto per lui e andrà oltre la semplice aspirazione al successo.

Perché, ci dice il film, ai livelli massimi sui parquet più importanti del mondo non c’è spazio per la rabbia e per la paura, ma anzi le emozioni vanno catalizzate verso quel sogno che potrebbe diventare reale. Bo e Stanley, in nome di un’amicizia disfunzionale e imprevista si scambieranno abbracci e influenze, diventando poco a poco un manifesto di riscatto e di (meritata) rivincita, con tanto di citazione a Rocky. Hustle, splendidamente girato (occhio alla granulosa fotografia di Zak Mulligan) e accompagnato dalla raffinata colonna sonora di un talento come Dan Deacon (a cui si uniscono diversi brani ad effetto, come Runnin’ di David Dallas), si appropria dei canoni epici e emozionali legati allo sport (e nello specifico verso il basket, lo sport più cinematografico di tutti), mostrandone però il lato più intimo e più umano, e di conseguenza facendo risaltare i valori della storia e del racconto. Ed è questo, più di tutto, che fa di Hustle un grande film.

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VIDEO | Qui il trailer di Hustle: