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Everything Everywhere All At Once | Michelle Yeoh, il Multiverso e un colpo da Oscar

Undici nomination e sette Oscar: il film dei Daniels? Un caso assoluto. Così noi lo abbiamo rivisto..

Jamie Lee Curtis in una scena di Everything Everywhere All At Once

ROMA – Incorniciato e appeso al muro dell’ufficio del regista Daniel Kwan a Highland Park si trova un’opera: History of Rise and Fall di Ikeda Manabu. Si tratta di un elaborato disegno a penna raffigurante un vortice di pagode, nodosi rami di ciliegio e binari: «Fanno venire mal di testa a guardarle perché sono intricatissime, ultra dettagliate e ricche di informazioni. Allontanandocisi un po’ però se ne distinguono i dettagli, e a un certo punto scopri un albero». Perché diciamo questo? Perché quando nel 2016 Kwan e il suo compagno di regia Daniel Scheinert (ovvero i Daniels) iniziarono a lavorare a Everything Everywhere All At Once, il film era quanto di più vicino al caos dell’opera di Manabu vista da vicino. Un diagramma complicatissimo su una lavagna grande come un’intera parete che raffigurava più di una dozzina di sottotrame distinte per colore e scarabocchi di idee buttate a caso.

Everything Everywhere All At Once
Dunque, andiamo con ordine: quanti Oscar? Sette?

Poi, durante il tour promozionale di quel piccolo capolavoro di pura genialità di Swiss Army Man – Un amico multiuso con la coppia Paul Dano e Daniel Radcliffe (film di cui si parla sempre troppo poco), i Daniels immaginarono Everything Everywhere All At Once (qui per leggere la nostra recensione) come un film fantascientifico sul Multiverso nella forma di un incubo esistenziale-nichilistico in cui buttare dentro una matassa colorata di idee e suggestioni filmiche di ogni genere – da Matrix e In the Mood for Love a 2001: Odissea nello spazio e Fight Club – e dita a hot-dog, sassi senzienti che riflettono sull’esistenza e perfino una parodia di Ratatouille con un procione al posto del topo della Pixar. Steso il primo draft per gli executive c’era un solo unico, enorme, problema: «Sembra un film da 100 milioni di dollari, dovete riscriverlo!».

«Un film su una donna che deve fare la dichiarazione dei redditi»

Parallelamente il Multiverso nel cinema e nella serialità stava prendendo sempre più piede tanto che, quando Spider-Man: Un nuovo universo fece capolino nell’immaginario collettivo nel 2018 sino ad arrivare all’Oscar per il miglior film d’animazione, Kwan rimase spiazzato: «È sconvolgente! Tutti ci batteranno su una cosa su cui stiamo lavorando da otto anni!». Lo stesso dicasi a proposito di Rick & Morty e di quella seconda stagione che gettò le basi linguistico-narrative del Multiverso per come oggi lo stiamo conoscendo: «Guardarlo è stato doloroso, frustrante. Scoprii che avevano già realizzato tutte le idee che pensavamo fossero originali». Non ultimo, ecco anche i recenti sviluppi di Marvel e DC, o del Multiverso come giustificazione narrativa della coesistenza di più universi e varianti. A differenza di Everything Everywhere All At Once però, nessuno di questi progetti poteva essere definito così: «Un film su una donna che deve fare la dichiarazione dei redditi».

Michelle Yeoh è Evelyn Quan Wang

Sì, perché recitava così l’enigmatica logline ufficiale che circolò al tempo della pre-produzione. Una donna che in teoria, nei piani originali di Everything Everywhere All At Once, sarebbe dovuta essere un uomo: Jackie Chan per la precisione, solo che così lo script non funzionava. Serviva una donna come protagonista e non una a caso: Michelle Yeoh. La stessa Yeoh che, ironicamente, all’indomani della sua incoronazione come Miss Malaysia 1983, esordì nel mondo dello spettacolo in una pubblicità proprio con Jackie Chan con cui dividerà poi lo schermo nell’indimenticabile Police Story 3: Supercop. Da sempre legati da una profonda amicizia, in un’intervista del 1997 disse in merito: «È un maiale maschilista, siamo ottimi amici e glielo dico spesso in faccia. Crede che le donne dovrebbero solo stare a casa a cucinare. Ad eccezione di me, dice adesso, perché sa che posso prenderlo a calci nel sedere..».

Stephanie Hsu, Michelle Yeoh e Ke Huy Quan in una scena di Everything Everywhere All At Once
Stephanie Hsu, Michelle Yeoh e Ke Huy Quan

«Una donna e la dichiarazione dei redditi»: no, non è propriamente sbagliato definire così Everything Everywhere All At Once, tanto da rappresentare il succo del concept, la sua essenza e poi è esattamente così che si apre il racconto ed è così che conosciamo Evelyn Wang (Michelle Yeoh), l’insofferente proprietaria di una lavanderia a gettoni che vive in un appartamentino angusto sopra l’attività e a cui attende una montagna di scartoffie da compilare per via di un controllo dell’agenzia delle entrate, l’IRS. Evelyn si preoccupa per l’arrivo del padre anziano (James Hong) e non riesce a dare ascolto né alla figlia maggiore Joy (Stephanie Hsu) né al sensibile marito Waymond (Ke Huy Quan). All’incontro con l’impiegata dell’IRS (Jamie Lee Curtis), uno strano avvenimento collegato al marito la proietta in un’avventura multidimensionale nella quale il destino di tutti gli universi è nelle sue mani.

Everything Everywhere All At Once: Multiverso e Kung-Fu
Everything Everywhere All At Once: Multiverso e Kung-Fu

A detta di Scheinert: «Si potrebbe dire che è un film di kung-fu ambientato in vari universi multidimensionali. Un film che parla del gap generazionale, di Internet e del terrore latente che accompagna la vita nell’era moderna, dove dentro ci sono l’elemento familiare, quello fantascientifico e quello filosofico». Più asciutto nella sua riflessione Kwan secondo cui – specie in funzione del climax in cui i Daniels hanno avvistato quel metaforico albero cercato per tutta la carriera – Everything Everywhere All At Once è altro: «Sì, un film su una madre che impara ad ascoltare la propria famiglia nel bel mezzo del caos più totale…». Parole pesanti, intense, che vivono dell’esperienza di vita di Kwan e del suo passato familiare: «Evelyn assomiglia molto a mia madre, quel tipo di madre oberata di cose da fare tutte in una volta e che non riesce a dedicarsi interamente a nessuna di queste».

Jamie Lee Curtis e Michelle Yeoh in una scena di Everything Everywhere All At Once
Jamie Lee Curtis e Michelle Yeoh, due Oscar seduti a fianco.

Lavorare a Everything Everywhere All At Once ha permesso a Kwan di capire meglio sua madre, di guardarla sotto una nuova luce di comprensione, ma soprattutto esprimere al meglio la propria creatività come Daniels, il cui input è scoccato all’indomani di una double-bill Matrix-Fight Club al New Beverly Theatre di Quentin Tarantino: «Questi film intrattengono in modo viscerale. Volevamo trasporre quel tipo di energia e senso di soddisfazione che si ha guardandoli in un contesto d’amore e comprensione. Non sapevamo come fare, ma volevamo portare qualcosa del genere sul grande schermo, che avesse un significato ma che fosse anche personale». Da qui l’esigenza di rispondere alle esigenze del presente, del nostro tempo: «Volevamo affrontare con questo film la sensazione che tutto stia accadendo nello stesso momento, quell’ansia di vivere nel mondo moderno, come si fa a inserirla in modo significativo in una storia?».

Stephanie Hsu in una scena di Everything Everywhere All At Once
Stephanie Hsu è Joy Wang/Jobu Tupaki

Sette anni dopo quel caotico pastrocchio sulla lavagna e il successo di Crazy & Rich cruciale nel convincere i Daniels a puntare tutto su un cast prevalentemente asiatico – e in cui, ironicamente, la Yeoh svettò su tutti per intensità recitativa – ecco finalmente la resa filmica di un Everything Everywhere All At Once giocoso, folle, solo apparentemente indecifrabile, che dopo un primo atto che vede maturare esponenzialmente la posta in gioco, ingolfato però, nel ritmo, dalla necessità del world-building e del mettere lo spettatore a conoscenza delle poche linee guida del contesto narrativo, vede nel secondo atto i Daniels innescare la miccia di una micidiale allegoria combattiva fatta di kung-fu e salti multidimensionali popolata di raccordi scenici dalla regia solidissima e resa pura magia da un montaggio da Oscar: incisivo, netto, capace di generare geometrie armoniche nel suo sviluppo narrativo a più livelli.

Everything Everywhere All At Once: La vita, il Multiverso e tutto quanto
Everything Everywhere All At Once: La vita, il Multiverso e tutto quanto

Il meglio deve ancora venire però. Perché in quel senso di sovraccarico cognitivo frutto di un viaggio dell’eroina nel Multiverso frammentario e infinito di Everything Everywhere All At Once, i Daniels sfruttano al massimo la tipicità eccellente del loro concept sguinzagliando un arco di trasformazione da manuale – colorato, ricco di sfumature, vivido – che nell’incidere tridimensionale di una narrazione che vede uno sviluppo ora lineare nel suo progredire razionale, ora trasversale – in ampiezza – tra i mondi paralleli, porta Evelyn a comprendere (e apprezzare) meglio sé stessa e chi le sta intorno, sino a quel climatico bagel nero farcito di depressione, annichilimento, traumi generazionali, incomprensione e dolore puro, da affrontare nell’unico modo che la vita sa insegnarci, con la comprensione e la gentilezza: «Tutti lottiamo ogni giorno perché siamo confusi. L’unica cosa che so è di essere gentili, soprattutto quando non sappiamo costa succedendo».

James Hong in una scena di Everything Everywhere All At Once
Il veterano James Hong è Gong Gong

Per un Everything Everywhere All At Once che – al pari della sua narrazione che cresce alla distanza fino ad esplodere in tutto il suo calore colorato nel terzo atto – sa crescere dentro come un’emozione bella, come l’amore quando è sincero, regalandoci una preziosa lezione universale sulle stranezze inaspettate del destino, sulle scelte, sul valore del tempo e il non guardarsi mai indietro e sul potere dell’empatia in un mondo come quello moderno: caotico, frenetico, a tratti incomprensibile. Manco a dirlo, un instant-cult destinato all’immortalità del tempo, oltre che un successo commerciale clamoroso con i suoi 104 milioni di dollari world-wide (a fronte di un budget di appena 14 e mezzo) che han fatto le fortune di IAC Films e Gozie AGBO oltre che di A24 che ne ha curato la distribuzione globale e della nostrana I Wonder Pictures per quello italiano.

Ke Huy Quan in una scena di Everything Everywhere All At Once
Ke Huy Quan è Waymond Wang

Un’immortalità arricchita di senso, oltre che da una straordinaria Yeoh, dal coming-back di Ke Huy Quan su cui va aperto un capitolo a parte dove Everything Everywhere All At Once è fine e (nuovo) principio. Un ruolo difficile quello del suo Waymond, dalla duplice dimensione caratteriale marito amorevole/eroe del Multiverso, che nell’amalgamarsi perfettamente all’istrionica Yeoh, segna il ritorno sulle scene dell’ex-bambino prodigio ammirato tra Indiana Jones e il Tempio Maledetto e I Goonies. Perché in realtà Quan non se n’era mai andato. Stufo degli stereotipi razziali, ha preferito restare nelle retrovie lavorando come stunt coordinator e assistente alla regia (The One, 2046), questo fino alla visione di Crazy & Rich, lì cambiò tutto: «Ho visto quel film e mi sono detto che se mai avessi voluto tornare a recitare, quello sarebbe stato il momento giusto perché le cose erano cambiate per noi asiatici», il resto è storia recente.

Con i suoi sette Oscar, Everything Everywhere All At Once è un caso

L’exploit in zona premi quindi, con le sue 260 vittorie su 391 candidature che lo han visto trionfare ai Golden Globe nelle categorie Migliore attrice in un film commedia o musicale (Michelle Yeoh) e Miglior attore non protagonista (Ke Huy Quan) – e ha stupito alla notte degli Oscar 2023 con i suoi sette Oscar – a pensarci bene non devono sorprendere più di tanto. Un film piccolo Everything Everywhere All At Once, magari privo dell’immensa visione kolossal di Avatar – La via dell’acqua, dell’anima cinefila dello spielberghiano The Fabelmans o del frizzante rigore dialogico de Gli spiriti dell’isola, ma dal cuore grande di puro cinema che lo rende – più che la sorpresa – la certezza della stagione cinematografica e il film dell’anno. Di sicuro un’opera di cui non potremo più fare a meno.

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Qui sotto potete vedere il trailer del film: 

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