ROMA – C’era una volta un treno carico di reietti. Bestie spelacchiate, fenomeni da baraccone, derelitti e dimenticati. Che, viaggiando per i cieli rosa del sud degli Stati Uniti, portava un sorriso ad una pubblico di miserabili uomini, accorsi sotto un consumato tendone a strisce per vedere il fachiro con i pagliacci; i cavalli e i trapezisti; i topolini giocolieri e la donna sirena. O, perché no, il fantasmagorico elefantino volante. Capace, con un colpo di orecchie e una piuma per amica, di rendere possibile l’impossibile. Davanti agli sguardi sbalorditi di quei mostri chiamati uomini, capaci di strapparlo dall’abbraccio più importante di tutti.
Ed era ovvio ed era giusto, alla fine, che Tim Burton cambiasse la storia e il corso evolutivo della narrazione del quarto Classico Disney, a quasi ottant’anni dall’uscita. Perché, pur mantenendo forte il cuore della fiaba, il Dumbo live-action è intellettualmente diverso dal suo originale. Essenzialmente, più giusto e più vero, meno vivace e più adulto. Riassumendo: emotivamente ed empaticamente esplosivo. Un flusso di atroce tenerezza, che ti spinge ad accarezzare con mano quell’elefante che non esiste. Ma che, a guardare bene, altro non siamo che noi stessi, nel bagliore pulito dell’innocenza, abbracciandolo e sussurandogli – sotto le orecchie che sembrano un mantello di un eroe pasticcione – che alla fine andrà tutto bene.
E il motivo del cambiamento, è più che giustificato: quello che poteva essere accettabile nel 1941, oggi (per fortuna) non lo è più. Allora, grazie a Tim Burton – e alla sceneggiatura Ehren Kruger – il piccolo elefante dagli occhi infiniti è libero. Di cadere, di imbarazzarsi, di sorridere. Di volare. E Burton, ad un sfida tutt’altro che semplice, risponde con forza. Chi è l’aberrazione, chiede. Chi è il pagliaccio, inquisisce severo. Cosa si prova quando ti manca qualcosa, domanda. E, forse, non è pazzia pensare che Dumbo sia, sotto sotto, la sua opera più intima e piccola, nonostante la produzione grande su cui si regge. «Alcune immagini del Classico hanno fatto la loro epoca», ha detto lo stesso regista, «Adesso sarebbero stridenti. Volevamo semplificare il tema: un outsider che sfrutta una debolezza in qualcosa di bello ed emozionante. E poi i circhi non mi sono mai piaciuti. Gli animali devono stare nel loro habitat».
Del resto, se il regista di Big Fish ci ha abituati allo straordinario, al cupo e all’ambiguo, qui gioca sulla sottrazione, sulle espressioni tenere, dolci e strazianti di un elefante sperduto e impaurito, ma coccolato dall’affetto di una famiglia unica: il nobile Holt (Colin Farrell) e i suoi figli Milly e Joe (Finley Hobbins e Nico Parker), la trapezista Colette (Eva Green), che scoprirà (davvero) come si vola e, a modo suo, il circense Max Medici (Danny DeVito). Uniti nel proteggere l’indifesa bellezza di un cucciolo che vorrebbe solo ritrovare sua mamma. Ma che invece si ritrova ad essere ridicolizzato da un universo stupido e bieco, incarnato da V.A. Vandevere (Michael Keaton), magnate senza scrupoli e proprietario di un parco giochi.
E, allora, la lezione, salendo in cattedra, la da il cineasta, alternando, a botte di cuore, il contrasto di due emozioni che per due ore non ci mollano mai: cieca rabbia e poi pura, liberatoria gioia. Tutto, così, è per il Piccolo D – così lo chiama Holt, perché lui, insieme ai suoi figli, più di tutti sa cosa vuol dire perdere qualcuno –, nato su una carrozza di un treno, e schiacciato da due ideologie diverse: l’America cantastorie e imbonitrice, e quella più romantica e contadina, pur con le contraddizioni del caso. Ecco, quindi, che Tim Burton, senza paura di far sorridere e (soprattutto) piangere, dedica il film a tutti i Dumbo del mondo. Che, finalmente, sono riusciti a volare verso casa.
Qui potete vedere il trailer di Dumbo:
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