ROMA – La rivoluzione narrativa e cinematografica della Marvel non accenna ad arrestarsi. Anzi, si eleva e sconfina verso territori spaziali e concettuali ancora inesplorati, evolvendosi in una nuova dimensione che, badate bene, non tradisce minimamente la sua preponderante identità. Che piaccia o no, come dimostra Doctor Strange nel Multiverso della Follia, il viaggio è ancora lungo. Anzi, non si può nemmeno più parlare di viaggio, bensì di un’epopea mastodontica e ramificata che fa dei dettagli quell’arma vincente in grado – ancora una volta – di farci sobbalzare dalla poltrona del cinema. Perché sì, anche questo è cinema; cinema che si sofferma sull’impossibile, sull’estasi, sulla sorpresa. In fondo, ogni tassello dell’Universo Marvel è idealmente pianificato per contenerne altri cento.
E allora, il ritorno di Sam Raimi nel mondo dei cinecomics (a vent’anni dallo Spider-Man con Tobey Maguire) equivale (e non poteva essere altrimenti) allo stravolgimento del genere, qui mischiato con le venature creepy e le teorie psicoanalitiche riviste in chiave marcatamente spettacolare. Perché ormai è chiaro: il Multiverso ha scombussolato la narrativa dei Marvel Studios, e l’ambizione è tale da rendere l’intero assetto decisamente fluido. Così fluido che anche Stephen Strange (Benedict Cumberbatch lo ha fatto letteralmente suo), probabilmente il più anticonformista tra gli Avengers, si adatta ad una nuova poetica e ad un nuovo profilo. Fin dal principio la Saga ha messo al centro l’uomo e mai la maschera, e ora mutatis mutandis, fonde i due elementi in un unico fulcro.

Non c’è mantello senza uomo, e non può esserci eroe senza una sua peculiarità. In questo senso, Doctor Strange nel Multiverso della Follia sfrutta la capacità visiva di Sam Raimi per farne un film quasi artigianale (in particolar modo nella seconda ora, quella più riuscita), che si riappropria di certe inflessioni che hanno fatto grande il cinema dell’assurdo e dell’inquieto. Sarebbe ingiusto addentrarci troppo nella trama del film – e non è un modo corretto di raccontare il cinema – ma è chiaro quanto la ferita spazio-temporale aperta in Spider-Man: No Way Home abbia lasciato degli strascichi sulla realtà e sugli incubi di Stephen Strange.

Se il tempo è ingannevole e sfuggevole, il nemico che ne emerge è vicinissimo allo stesso Stregone, e potrebbe non bastare l’aiuto di Wong (Benedict Wong) per affrontare i pericoli del Multiverso, scatenati nientemeno da Scarlett Witch (Elizabeth Olsen) che, disperata, tiene ben lontana Wanda. Così, tra il sogno e la realtà, il destino dei Multiversi e delle stringhe quantistiche potrebbe essere affidato alle mani di America Chavez (Xochitl Gomez), una ragazza portoricana capace di muoversi attraverso le infinite dimensioni. È lei, infatti, l’elemento esplosivo di Doctor Strange nel Multiverso della Follia, e finalmente la Marvel introduce nell’MCU una figura fondamentale, dalla forte valenza politica, sociale e culturale. America Chavez è editorialmente giovane (ha fatto la prima comparsa nel 2011), ma non è solo questo il punto: è la prima latino-americana LGBTQ+ a far parte di una collana a fumetti.
E poi diciamolo, ha un nome pazzesco e un appeal in grado di bucare sia la carta che la pellicola. Naturalmente, è attorno a Stephen che è costruito un film che sembra arrampicarsi su più piani e più livelli, e resta potente – dietro l’enormità degli VFX – la metafora che vuole una realtà incontrollabile, in balia del caos e dell’inaspettato. Sulla propria pelle, e affrontando diversi sé, lo Stregone Strange comprende quanto sia dannoso voler controllare tutto, finendo per scendere in un incubo che farà a pezzi il suo Ego. Ecco appunto: l’Ego. L’uomo e la maschera, dicevamo, se prima erano scissi ora si piazzano sullo stesso livello. Ennesimo step per la Marvel, ennesimo atto narrativo che ci fa riappropriare del mezzo cinematografico come assoluto paradigma di evasione e meraviglia.
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