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Black Panther: Wakanda Forever? Tra l’eredità emozionale e la complessità della Fase 4

Dolore, rabbia, senso di appartenenza: Ryan Coogler ci riporta in un Wakanda divenuto centro del mondo

black panther 2 wakanda forever recensione
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ROMA – Non si può raccontare Black Panther: Wakanda Forever senza considerare il fortissimo e spassionato valore emozionale dell’opera. Perché, dall’inizio alla fine, Ryan Coogler (e il cast tutto) si confronta con l’assenza assordante di Chadwick Boseman. Ogni parola, ogni sguardo, ogni svolta mette al centro il suo ricordo e la sua eredità di uomo prima che di attore. Non poteva essere altrimenti, non potrebbe esserci omaggi più sentito e più nobile. Il Trono di Wakanda è orfano di una figura centrale, capace di aver riscritto le regole spirituali e umane della poetica Marvel che, con il sequel di Black Panther, conclude una tortuosa Fase 4.

Dorothy Steel, Florence Kasumba, Angela Bassett, Danai Gurira in Marvel Studios’ Black Panther: Wakanda Forever

Un film obbligatoriamente luttuoso e dolente, lontano da certi retaggi eppure coerente con una narrativa diversa dai fasti passati e dall’epica sorprendente. Oggi, nella Saga per eccellenza, quella dei record e della grandi star, pare sia cambiato tutto: l’inaspettato ha lasciato il campo alla normalità degli eroi, più umani, più sconnessi, più arrabbiati. Come noi? Chissà. E nella sua imponente maestosità (la durata è di quasi tre ore), Black Panther: Wakanda Forever si biforca nel retaggio doloroso di un eroe scomparso e, intanto, con la necessità di andare avanti, di cercare una nuova alba che diradi l’oscurità di una notte senza fine. Ecco, la fine: Ryan Coogler sceglie la circolarità per raccontare il Wakanda diventato centro di un nuovo Mondo.

Letitia Wright è Shuri in Marvel Studios’ Black Panther: Wakanda Forever

Le grandi potenze vorrebbero approfittare della sua incredibile giacenza mineraria, vorrebbero trarre profitto, probabilmente colonizzarla. Lunga vita al Re, dunque, ma il Re non c’è più. Il fantasma di T’Challa risuona nei ricordi e nelle lacrime di sua madre Ramonda (Angela Bassett) e di sua sorella Shuri (Letita Wright), che dovranno difendere il Regno da un’invasione tanto politica quanto violenta. Dopo un’incomprensione, la minaccia arriva dal civiltà subacquea di Talocan e dal suo Re, Namor (Tenoch Huerta). In occasione del trentesimo film, infatti, Kevin Feige sceglie di introdurre nell’MCU uno dei primissimi personaggi della Marvel, apparso per la prima volta nel 1939 quando la Casa delle Idee era ancora Timely Comics.

Una scena da Marvel Studios' Black Panther: Wakanda Forever
Una scena da Marvel Studios’ Black Panther: Wakanda Forever

Altri tempi e altre storie, che tornano in uno dei capitoli più complessi di questo grande e inarrestabile show. Complesso perché i riflessi drammatici sono necessariamente accentuati, e complesso perché la narrativa attuale concettualizza lo spettacolo come un format ormai appurato, sicuro e studiato nei minimi dettagli, in cui lo stupore diventa elemento (forse troppo?) famigliare, sfilacciando i meravigliosi intuiti che abbiamo ammirato fino ad Avengers: Endgame. Parallelamente, però, il simbolismo di Wakanda è ancora fortemente sociale e culturale, allargando i margini di una poetica e di una tecnica che hanno saputo riscrivere il cinema e i suoi umori. A proposito di tecnica: la nota conclusiva non può non menzionare la colonna sonora di Ludwig Göransson, capace di rendere Black Panther: Wakanda Forever un vero e proprio tripudio musicale.

  • Letitia Wright racconta il film

Qui il trailer di Black Panther 2:

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