MILANO – Cos’è che cela la colpa? È la parola, impeccabilmente congegnata affinché non se ne distingua più il reale significato, o la memoria, offuscata da ciò che è preferibile rimuovere e mantenuta viva dal linguaggio – e fatto – ignoto del presente? Eppure per chi è chiamato a giudicare, il passato mantiene sempre un ruolo di primo piano e il presente ne è il frutto parziale, mutilato e in via di formazione. Come tornare a quel tempo e luogo della memoria che non esiste più? Ascoltando la rabbia e il dolore, che molto spesso nascono nell’immaginazione spregiudicata della menzogna. Lo sa bene il giovanissimo Halfdan Ullmann Tøndel, firmando la regia del suo acclamato debutto al lungometraggio, Armand, che trovate al cinema con Movies Inspired. Tanto attraverso la parola, quanto il significato profondo dello sguardo e dei silenzi, Tøndel riflette sulle responsabilità della colpa e di tutto quel male che gli uomini – si – fanno, pur raccontandosi l’opposto, preferendo dunque l’illusione apparente e ingenua della menzogna e così la verità alternativa.

Quella di Armand potrebbe però, appartenere ad entrambe le vie, collocandosi nel mezzo. Dov’è allora il reale? Non conosciamo l’entità della colpa, non subito almeno. Però, nella prima sequenza di Armand, c’è un’auto che sfreccia a tutta velocità tra i boschi della Norvegia, seguita dal passo duro, sonoro, quasi militare di una donna, che rimbomba in un corridoio scolastico, annunciando fin da subito la presenza di un carattere inarrestabile, seducente e inaspettatamente fragile. Appartiene ad Elizabeth (lo diciamo fin da ora, Renate Reinsve è tra le più grandi interpreti della scena cinematografica internazionale), madre del piccolo Armand, chiamata a colloquio dagli insegnanti di quest’ultimo, a causa di un presunto comportamento scorretto, definito dal sistema scolastico di Armand come deviante, sessuale e temibile. Cos’è che Armand ha fatto e che Elizabeth, in quanto madre, donna e attrice – dettaglio questo, di enorme interesse – non potrebbe mai considerare reale? Forse la violenza è avvenuta, forse i genitori della vittima mentono, oppure le angosce e i fantasmi della menzogna, sono capaci più di tutto e tutti, di manipolare la realtà.

Attorno, lo sguardo, seguito dalla parola. Tanto di Elizabeth, quanto degli altri volti presenti nell’aula. Quello di Halfdan Ullmann Tøndel è un legal thriller in piena regola, che al tribunale, sostituisce l’altrettanto glaciale, rigido e imparziale – lo è mai? – sistema scolastico norvegese (che è poi specchio dell’intera società). In assenza di una giuria, l’inevitabile e umano parteggiare di chi ha ascoltato e compreso, ciò che tutti gli altri non hanno intercettato, il rimosso, la violenza effettiva e il perdono. Il giudizio, così come la pena, non è infatti sul piccolo Armand che pende, ma sulla madre, Elizabeth. Madre e donna, fin troppo a lungo sopravvissuta all’incombente questione del perdono, nata proprio dalle colpe. Quelle che ha subito, quelle che ha osservato e forse, non è sola in questa battaglia. Dal reale distorto, manipolato e frutto della menzogna, a quello del passato, che rivive nei silenzi e nella confessione sussurrata tra uomini e donne, i quali proprio in virtù dell’ascolto, quello vero, mai potrebbero odiarsi, né tantomeno desiderare di distruggersi.

Non è lo stesso tra donna e donna, là dove la solidarietà svanisce e prende piede sempre più, la naturale appartenenza degli individui, ad una radice dura a morire. Radicata con grande tenacia e pazienza, all’ambiguità della sfera morale e al disallineamento, tra ciò che è origine del male e ciò che è invece ordine naturale delle cose e della famiglia. Dunque il dubbio. È accaduto realmente o la memoria frammentata e scomposta dal dolore, ha manipolato ciò che si è sempre creduto? Ecco che improvvisamente, dal presunto atto di violenza, forse compiuto da Armand, o addirittura mai concretizzato, lo sguardo dello spettatore si sposta su Elizabeth. Non siamo i soli ad osservarla, con noi ogni altro volto e corpo del folgorante esordio di Tøndel. Dalla risata, al pianto, fino alla rabbia e poi il silenzio.

Un anno dopo l’ottimo La sala professori di Ilker Çatak, Armand torna tra aule e corridoi scolastici, per indagare con ancor più ferocia e sadico umorismo, colpe, ipocrisie e falsità degli uomini e delle donne, che prima d’essere tali, sono stati bambini. Gli stessi che qui accusano, gli stessi che qui fuggono dallo sguardo, forzando l’immaginazione, dunque la manipolazione. La loro, la nostra. Quello di Tøndel è un cinema estremamente sagace, ipnotico e fantasmatico, scelto non peraltro come candidato norvegese per il miglior lungometraggio internazionale alla 97ª edizione degli Academy Awards. Potrebbe essere tutto, la contaminazione tra generi lo dichiara a più riprese, eppure la direzione è chiara, mentre il resto, è pura illusione. Lasciatevi manipolare da Armand, ne varrà la pena!
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