ROMA – C’erano troppe parole in quella sceneggiatura. Troppe cose dette. Mancava il silenzio, l’epica, il mistero. E così Marlon Brando – senza allarmare troppo Francis Ford Coppola, già sull’orlo di un esaurimento nervoso – decise di creare il colonnello Walter E. Kurtz. Giorno dopo giorno. Paola dopo parola. «Ha mai preso in considerazione delle vere libertà? Libertà delle opinioni altrui. Perfino delle proprie opinioni». All’inizio di tutto c’erano le pagine di Joseph Conrad e di Cuore di tenebra, ma era evidente che quel film fosse qualcosa di più, fosse una riflessione a cuore aperto su una guerra assurda che aveva ucciso un milione di vietnamiti e sessantamila ragazzi americani. Apocalypse Now non era un film, ma un’impresa colossale, un’opera gigantesca, che poi vinse la Palma d’Oro a Cannes nel 1979, e ricevette otto nomination e due Oscar, ma la candidatura come attore non protagonista andò a Robert Duvall e non a Brando.
Il film – come vuole la leggenda – fu un’odissea, tra febbri malariche che colpirono la troupe, il ciclone che si abbatté sulle Filippine provocando danni per tre milioni di dollari e l’infarto a Martin Sheen a riprese in corso. Intanto Brando si mangiava il film, spiegando a Coppola che meno si sarebbe visto il suo Kurtz, disertore divorato dalla follia e inseguito dal capitano Benjamin Willard (Martin Sheen), e più sarebbe stato potente. «Noi addestriamo dei giovani a scaricare Napalm sulla gente, ma i loro comandanti non gli permettono di scrivere “cazzo” sui loro aerei perché è osceno». Paroli fortissime e soprattutto modernissime, scandite da una serie di sequenze e battute memorabili, amplificate dal fatto che la figura di Kurtz fosse stata modellata non solo dal libro, ma su quella reale di Robert Rheault, capo dei berretti verdi americani nel Vietnam. Un’ispirazione che Coppola e John Milius – in sceneggiatura – trasformarono in uno dei personaggi più potenti di sempre grazie al tocco d’autore di Brando.
Ma chi era davvero Robert Rheault? Probabilmente se Willard si fosse trovato tra le mani il dossier di Rheault avrebbe detto le stesse cose che dice nella pellicola mentre spulcia il file segreto di Kurtz. Carriera militare a cinque stelle, anni di studio alla Sorbona a Parigi e alla celebre accademia di West Point dove poi avrebbe insegnato il francese, medaglia al coraggio durante la guerra di Corea. Di sicuro, proprio come Kurtz, Rheault possedeva una personalità magnetica e una certa attitudine al comando. Proprio quella che gli fece guadagnare la guida di quattromila berretti verdi di stanza in Indocina. Durante la sua permanenza nel sud-est asiatico, però, Rheault si macchiò – tra le molte cose – del cruento omicidio di un informatore locale, Thai Khac Chuyen, giustiziato dopo dieci giorni di sevizie e buttato in mare. Il figlio undicenne di Rheault, intervistato in America, commentò così: «Beh, ma non è proprio per questo che papà sta laggiù? Per uccidere i viet-cong?».
Un comportamento che arrivò al Pentagono e – ovviamente – ritenuto inaccettabile che portò Rheault davanti alla Corte marziale. Nonostante l’intercessione del presidente Nixon, l’uomo abbandonò la carriera militare nel novembre del 1969. Due anni più tardi la sua storia finì nelle mani Daniel Ellsberg, il padre dei Pentagon Papers che a sua volta avrebbe ispirato Steven Spielberg per The Post. Ma quella è un’altra storia. Brando mescolò tutti questi elementi per arrivare alla figura messianica di Kurtz, un uomo sepolto in fondo alla giungla, disertore di una guerra che avrebbe partorito poi altre guerre simili, disertore di una guerra assurda da cui aveva abdicato. «Mi preoccupa che mio figlio possa non capire ciò che ho cercato di essere e, se dovessi essere ucciso, Willard», dice ad un certo punto Brando in una scena chiave, «vorrei che qualcuno andasse a casa mia e dicesse a mio figlio tutto. Tutto quello che ho fatto, tutto quello che lei ha visto, perché non c’è nulla che io detesti di più del fetore delle menzogne…».
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