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Antonio Pietrangeli e la modernità di un regista dimenticato troppo presto

Le origini da critico, i capolavori, le parole, le intuizioni. E poi, nel 1968, quel tragico incidente sul set…

Antonio Pietrangeli sul set.

ROMA – «Il cinema di Pietrangeli? Un documento d’epoca. Un po’ come Il sorpasso di Dino Risi. I suoi film offrono la possibilità di vedere e capire un pezzo della nostra storia, del nostro modo di essere italiani». A dirlo, Ettore Scola che in quanto ad italianità nel cinema se ne intendeva parecchio. Perché in quei dieci film (e mezzo) all’attivo, Antonio Pietrangeli seppe raccontare con uno stile tutto suo, con note di magico e speranzoso romanticismo su di uno sfondo asciutto al sapore di Nouvelle Vague, italiani in cerca di riscatto e speranza, emancipazione e cambiamento, che dalla narrazione diventano poi motore e rivoluzione. Ma andiamo con ordine. Perché Pietrangeli – oggi quasi dimenticato – un laureato in medicina (esercitò la professione per un breve periodo) scelse poi di dedicarsi al giornalismo e a quella macchina di sogni che è il cinema, di cui era affascinato sin da studente?

Antonio Pietrangeli e il suo cinema
Antonio Pietrangeli e il suo cinema

Perché iniziò da critico il suo apprendistato nel cinema scegliendo di firmarsi con lo pseudonimo Vice (da sempre utilizzato da chi non voleva firmare). Nel 1940 iniziò a collaborare con il quotidiano Il lavoro fascista. Quasi un anno dopo, grazie ad Umberto Barbaro, Luigi Chiarini e Francesco Pasinetti, divenne collaboratore della prestigiosa Bianco e Nero (testata del Centro sperimentale di cinematografia) in qualità di segretario di redazione, redattore ed editorialista fino al 1943, anno in cui prestò la sua penna per la rivista Cinema. In quello stesso anno Pietrangeli sposò Margherita Ferrone. Dal matrimonio nasceranno due figli: Paolo – regista e cantante, quello di Contessa – e Carlo. Scrisse poi, insieme a Barbaro, il saggio filmico Appunti sulla regia cinematografica,che vide la luce della pubblicazione soltanto post-mortem, nel 1995, e infine il cinema. Quello vero.

Ossessione, la prima sceneggiatura firmata (per errore) da Antonio Pietrangeli

Ne assaggiò le atmosfere nel 1941 come segretario di edizione per Via delle Cinque Lune di Luigi Chiarini interamente prodotto dal CSC i cui allievi ed ex-allievi composero parte del cast artistico oltre che tecnico. La svolta arrivò sul set di Ossessione di Luchino Visconti, dove Pietrangeli ebbe il ruolo di direttore dell’ufficio stampa, co-aiuto regista (erano lui e Giuseppe De Santis) e dialoghista. Per via di un errore – un gran bell’errore – fu però accreditato nei titoli di coda come sceneggiatore, quasi come a volerne presagirne il futuro destino. E ne scriverà poi di script, alcuni anche rimasti inediti (Il processo di Maria Tarnowska, Jane Eyre, Fornaci, Gli indifferenti). La storia però stava cambiando e il 1943 fu anche un anno di dolore per Pietrangeli: all’indomani del Proclama di armistizio di Badoglio dell’8 settembre, si ritrovò tra gli sfollati.

I titoli di testa di Adua e le compagne: uno dei capolavori di Antonio Pietrangeli

In quel periodo visse in clandestinità assieme a Michelangelo Antonioni e nel 1944, anno della Roma (finalmente) liberata, il Pietrangeli critico era attivo tra testate culturali (Domenica, Mercurio, Città, Cosmopolita, Cronache), e traduzione di racconti di illustri letterati stranieri. Fino all’aprile del 1946 curò anche la rubrica Sala di Proiezione della rivista Star di Ercole Patti dove la sua maturità di scrittura lo fece conoscere alla comunità cinefila come una penna esigente, intransigente, dall’amore smodato per il neorealismo e dal giudizio implacabile. Tra il 1945 e il 1946 visse inoltre una querelle legale con Visconti per Proposta di un soggetto per un film sulla borghesia milanese, nonché eccolo firmare l’ennesima sceneggiatura inedita (La vita). L’anno successivo, ancora saggista (Fotogrammi, La critica cinematografica, Film rivista), verrà eletto presidente della Federazione italiana dei circoli del cinema (FICC).

Gioventù perduta: altra sceneggiatura a firma Antonio Pietrangeli

Il 1947 fu l’anno di altre due sceneggiature rilevanti e non più soltanto inedite per Pietrangeli: Gioventù perduta di Pietro Germi e Amanti senza amore di Gianni Franciolini. L’anno successivo, il 1948, si candidò alla Camera dei deputati nelle liste del Fronte democratico popolare per poi congedarsi dalla professione di critico con Panoramique sur le cinéma italien/Cinema italiano sonoro, pubblicato su La Revue du Cinéma. Tra progetti irrealizzati e lasciati a metà (Romanzo d’amore di Duilio Coletti e Vulcano di William Dieterle), Pietrangeli iniziò a collaborare con Suso Cecchi d’Amico e Roberto Rossellini (Europa ’51, Viaggio in Italia, Dov’è la libertà, I sette vizi capitali) per poi rompere definitivamente con Luchino Visconti dopo lo script del capolavoro neorealista La terra trema.

Il sole negli occhi (Celestina), l'esordio alla regia di Antonio Pietrangeli
Il sole negli occhi (Celestina), l’esordio alla regia

Sceneggiatore ancora per Luigi Comencini (La tratta delle bianche) e Alberto Lattuada (La lupa) nel 1953 Pietrangeli decise di fare il grande passo e finì dietro la macchina da presa esordendo da maestro del dramma con Il sole negli occhi – il cui script (Il lungo viaggio di Celestina) fu scritto insieme a Lucio Battistrada, Cecchi d’Amico e Ugo Pirro – in cui cucì addosso ad una grande Irene Galter una Celestina dalla costruzione caratteriale profonda e tridimensionale accanto all’allora semisconosciuto Gabriele Ferzetti. Dopo il film a episodi Amori di mezzo secolo (di cui firmò Girandola 1910), Pietrangeli passò quindi nel 1955 alla commedia all’italiana con Lo scapolo con un grande Alberto Sordi che si portò a casa il Nastro d’Argento 1956 per il Miglior attore protagonista.

Alberto Sordi in una scena de Lo Scapolo di Antonio Pietrangeli
Alberto Sordi in una scena de Lo Scapolo

Questo grazie a uno script brillante a firma Scola comprensivo di tutti quei piccoli incubi e interrogativi quotidiani di un dongiovanni ontologico che vede ribaltare la sua percezione del mondo, tratteggiati di lievità e di humour. Tutti avvolti attorno all’aura del classico archetipo sordiano contaminato di quel tipico tocco Pietrangeli, andato poi ad inasprirsi negli anni a venire che finisce con l’avvicinare Lo scapolo al terreno narrativo dell’amara commedia romantica. Due anni dopo è la volta de Souvenir d’Italie, un’autentica sarabanda italo-francese di luoghi comuni e volti noti (sempre Sordi ma anche Ferzetti e Vittorio De Sica). Nel 1958 poi, oltre a qualche script rimasto sul fondo del cassetto (Le ragazze chiacchierate, Le carmelitane), ve ne furono altri che ebbero fortuna produttiva: Nata di marzo che di Pietrangeli è già la quarta regia (e mezzo) in appena cinque anni.

Souvenir d'Italie: la terza regia di Antonio Pietrangeli
Souvenir d’Italie: la terza regia di Antonio Pietrangeli

Un’opera arricchita di senso da un grande Ferzetti e da una deliziosa Jacqueline Sassard che, nel suo perenne limbo malinconico – un po’ alla maniera de Lo scapolo – tra dramma e commedia, lasciò perplessi i critici, specie nella soluzione scelta per il benevolo (e stridente) climax impostogli dal produttore Carlo Ponti e mal digerito dalle coppie di sceneggiatori Scola-Maccari, Age e Scarpelli che ne avevano tratteggiato fino a quel punto un’opera lucida e feroce. Numerose furono le traversie dei successivi tre anni per Pietrangeli, periodo in cui lavorò a progetti improduttivi e sfortunati (Sarajevo, I gemelli, La vergine e il toro). La svolta per Pietrangeli arrivò Il 18 aprile 1958 quando firmò un contratto con la Zebra Film di Moris Ergas per la realizzazione di tre pellicole: Adua e le compagne, La bugiarda, Una donna al giorno.

Nata di marzo, la quarta regia di Antonio Pietrangeli
Nata di marzo, la quarta regia di Pietrangeli

Di queste solo Adua e le compagne a firma Maccari-Scola e Tullio Pinelli, entrò in lavorazione il 4 aprile 1960 dopo rinvii per indisposizione di Simone Signoret (la Adua protagonista principale), ritardi della coproduzione francese e grane con la censura. Nell’Italia della legge Merlin e della chiusura delle case di tolleranza, le prostitute Adua, Milly (Gina Rovere), Lolita (una formidabile Sandra Milo esordiente proprio con Lo scapolo) e Marilina (Emmanuelle Riva), si mettono in proprio e aprono una loro trattoria-locanda. Un’opera ostracizzata, difficile, eppure piena di vita nel raccontare di emancipazione e riscatto: semplicemente grandiosa. Tra ancora pellicole preannunciate e altre sfumate (Una storia italiana), l’ascesa di Pietrangeli non accennava a fermarsi. L’anno successivo fu la volta de Fantasmi a Roma su script di Scola-Maccari e in parte Ennio Flaiano.

Fantasmi a Roma: la folle fanta-commedia di Pietrangeli
Fantasmi a Roma: la folle fanta-commedia di Pietrangeli

Il film comprendeva un cast da sogno (Edoardo De Filippo, Marcello Mastroianni, Vittorio Gassman, oltre che l’immancabile Sandra Milo) ma ebbe una vita artistica difficile: folle mistura di fantasy e commedia amata dai critici ma poco apprezzata dal pubblico (fu un flop clamoroso). Un’anomalia nel cinema di Pietrangeli di quel decennio che, eccetto che per l’irriverente e modernissimo Il magnifico cornuto del 1964 con la strana coppia Ugo Tognazzi-Claudia Cardinale, fu di fatto segnato da una presenza femminile artisticamente eccezionale (La parmigiana, La visita, Io la conoscevo bene). Tutte opere moderne, avanti di trent’anni rispetto al registro filmico del proprio tempo. Prendiamo, ad esempio, La parmigiana del 1963. Ispirato all’omonimo romanzo di Bruna Piatti del 1962 su script della coppia Scola-Maccari e Stefano Strucchi, è un’opera spregiudicata nel raccontare l’indipendenza di Dora (Catherine Spaak).

Catherine Spaak è la moderna Dora de La parmigiana

Agente scenico dall’irriverente e libera carica vitale puntualmente in contrasto con la mediocrità e la meschinità maschile dei Michele (Lando Buzzanca) e Nino (Nino Manfredi) con cui intreccia relazioni semplici senza sposarsi, fatto vivere da Pietrangeli in una regia fluida scandita di digressioni temporali. Al pari di Adua e le compagne e Fantasmi a Roma, anche La parmigiana fu accolto con favori misti da critica e pubblico: rivelava le ragioni maschiliste e poco aperte del pubblico più meschino. Specie per l’interpretazione erronea della risata finale della Spaak: gesto di auto-affermazione ed emancipazione femminile inteso dai più come di irriverente perdizione. Nello stesso anno Pietrangeli firmò La visita, ennesima commedia amara, al sapore agrodolce, dell’incontro tra due solitudini: Pina (ancora una grande Sandra Milo) e Adolfo (François Perier).

Sandra Milo e François Perier ne La visita

Un’opera preziosa che nel raccontare delle attese disilluse di una relazione consumatasi nell’arco di una giornata, diventa – in via del tutto inaspettata – anticipatore dei nostri tempi relazionali veloci e (tristemente) fugaci. E poi Io la conoscevo bene del 1965, il capolavoro assoluto di Pietrangeli. Opera di cui si assaporava la realizzazione già nel 1961, al termine di un’inchiesta che rivelò un intero sottobosco di disilluse modelle, costrette a tutto pur di raggiungere le luci della ribalta. Pietrangeli scrisse lo script con Scola e Maccari immaginando la Milo come protagonista. Il flop di Vanina Vanini di Rossellini la rese però un investimento rischioso. Contemporaneamente l’emergente Stefania Sandrelli era il nome-rivelazione dopo la doppietta Germi (Divorzio all’Italiana/Sedotta e abbandonata). C’era un problema però perché ai produttori intrigava poco, immaginando invece i volti trascinanti delle varie Natalie Wood, Brigitte Bardot e Claudia Cardinale.

Io la conoscevo bene: il capolavoro di Antonio Pietrangeli
Io la conoscevo bene: il capolavoro di Antonio Pietrangeli

Messo in stand-by per quasi quattro anni, Io la conoscevo bene vide infine la luce produttiva proprio con la Sandrelli come volto e corpo di Adriana Astarelli. Per un’opera complessa e ambiziosa che nel ricomporre l’ennesimo ritratto di una ragazza di provincia in cerca del proprio sogno nell’Italia del boom economico, vede Pietrangeli mettere assieme i tasselli del puzzle di una vita dentro una vita fatta di volubilità e incostanza, mancanza di reali ambizioni e automatismi, e di brevi ma intensi incontri che ne segnano profondamente l’indomita e struggente solitudine: oltre il concetto di capolavoro. E amava le donne Pietrangeli, immensamente. Le capiva, si metteva nei loro panni, arrivando ad affermare in una celebre intervista come: «Non è tanto che io sia Celestina, Pina, Adua o Adriana, come Flaubert era Emma Bovary, ma esserlo è parte di un processo di trasformazione sociale».

Adua e le compagne: le donne di Antonio Pietrangeli
Adua e le compagne: le donne di Antonio Pietrangeli

«Quello in cui, da vent’anni a questa parte, la donna ha un incontestabile ruolo da protagonista. Le mie donne sono tutte legate da uno stesso filo rosso occupato non da una mia predilezione per questo o quel prototipo di donna, ma dai vari aspetti che può aver assunto il cammino di emancipazione della donna nella società italiana», o della donna come icona sociale. Nonostante il successo – anzi, la consacrazione (Miglior regia e Miglior sceneggiatura ai Nastri d’argento 1966) – per Pietrangeli arriveranno ancora difficoltà e progetti irrealizzati, tanto da suonare incredibile come il suo lavoro successivo (e ultimo) corrisponderà a Come, quando, perché di nemmeno tre anni dopo, nel 1968. Un ritratto lucido ed esilarante della borghesia italiana su script di Pinelli, interpretato da Philippe Leroy (Marco), Danielle Gaubert (Paola), Horst Bucholz (Alberto).

Come, quando, perché, l'ultima volta di Antonio Pietrangeli
Come, quando, perché, l’ultima volta di Antonio Pietrangeli

Come, quando, perché ebbe il via libera produttivo alla fine di marzo del 1968 per poi interrompersi tragicamente: Antonio Pietrangeli morì il 12 luglio 1968 ad appena 49 anni. Nel pieno della lavorazione, mentre spiegava a tre comparse alcuni dettagli sulla loro posizione in scena, un’onda anomala lo scaraventò contro uno scoglio. Nell’impatto il regista sbatté violentemente il capo e perse i sensi. Fu ritrovato senza vita un paio d’ore dopo dalla Capitaneria di Porto. Come, quando, perché, verrà poi ultimato da Valerio Zurlini su volontà degli eredi di Pietrangeli per poi essere distribuito l’anno successivo. Ma non è questo ciò che conta. Il cinema di Pietrangeli è imperturbabile. Vive nel tempo, nel cuore di tutti noi e nelle sue piccole (ma preziose) innovazioni nel racconto e nel modo di raccontare che fecero scuola. Ora come allora.

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Qui sotto potete vedere il trailer de Io la conoscevo bene: 

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