Il percorso pasoliniano, segnato agli inizi dal mito “dell’età dell’oro” della cultura contadina ed espresso nella sua prima produzione poetica, approda ben presto ad una rabbiosa e dolorosa visione del mondo: un mondo aggredito da una civiltà dei consumi che omologa gusti e comportamenti anche di quella sfera “primitiva e vitale” alla quale Pasolini aveva aderito, sia pure conflittualmente, lungo la sua esistenza. Lo sconforto per cui la “natura” resta sconfitta dalla “storia”, mette lentamente in crisi la funzione stessa della scrittura, e si esprime in buona parte della sua produzione teatrale — Orgia, Porcile, Calderón, Bestia da stile — prefigurando il destino futuro di tutta la letteratura pasoliniana.

Tale delusione, che accosta Pasolini al teatro con fiducia e repulsione insieme, in un movimento che crea oscillazioni continue, ha posto i termini per cui si è letta l’intera produzione teatrale e filmica: traduzione del teatro, ridotto a scrittura personale (e privata) di un testo poetico che, sprofondato in una solitudine senza pubblico, ha visto nell’atto più il male del silenzio che non una messinscena “rituale”. Il suo manifesto, quello di fondare un “teatro di parola”, postulato alcuni anni dopo la prima stesura delle sei tragedie, va letto in senso restrittivo, anzi impone una rilettura alla luce di ciò che Pasolini scrisse a proposito di un possibile “cinema di poesia”. Si tenta dunque di ricostruire una necessità del teatro, visto che oggi ”anche il più sciatto e mestierante degli attori sente vagamente di non partecipare più a un avvenimento sociale, di ricostituire quel luogo dove una comunità – sia pure quella dei “gruppi culturali avanzati della borghesia” – ascolta una parola da accettare o respingere, una “parola poetica” che recupera anche la sua funzione esoterica. Ma tale crisi del teatro è legata soprattutto all’impoverimento del mezzo espressivo, l’impoverimento – in questo caso – della parola, ridotta appunto a “chiacchiera”, e cioè privata di quel senso “in più”, di quel senso aggiunto che è il suo potere di connotazione.

Quando Pasolini parlava di una tendenza espressa dall’ultimo cinema – da Rossellini alla “nouvelle vague” – di una tendenza verso un cinema di poesia, tentava di svelare come fosse possibile praticamente, nel cinema, la “lingua della poesia”. E legava tale lingua a una forma particolare di discorso libero indiretto: l’immersione del regista nell’animo del suo personaggio e quindi l’adesione non solo alla sua psicologia, ma anche alla sua lingua. Ma non basta. Dice Pasolini: ”bisogna ritrovare nei mezzi tecnici del cinema l’originaria qualità onirica, barbarica, irrazionale, aggressiva, visionaria», che esso possiede; e questo attraverso un lavoro sui momenti espressivi dell’ultrafilm, che sono le “insistenze” delle inquadrature, il ritmo di montaggio. L’alternanza di obiettivi diversi, i movimenti di macchina, o se volete le carrellate esasperate, gli attacchi irritanti, le immobilità interminabili su una stessa immagine ecc., definiscono quel cinema di poesia, che è in sostanza quel cinema che, come lui stesso dice, ”fa sentire la macchina”. Ecco che il suo teatro di parola è un teatro che fa sentire la macchina della scena, perché è un teatro che lavora su una tecnica, su una pratica: la scelta del verso, con la sua innaturalità, è porre attenzione su un elemento che scandisce la scena, e che per lui è condizione perché storicamente si dia capacità di ascolto e di lettura rispetto alle differenze, ai mutamenti sociali e culturali, al passato e alla storia. È un teatro che lavora certo per eliminazioni, sottraendo ciò che per Pasolini era inessenziale (luci, costumi, scenografia, ecc.) ma è estremamente rigoroso nel suo costituirsi come teatro di una parola ritrovata.

Poiché c’è dunque di mezzo la voce dell’attore e la sua interpretazione, Pasolini sosteneva la necessità che l’attore fondi «la sua abilità sulla capacità di comprendere veramente il testo. E non essere dunque interprete in quanto portatore di un messaggio (il teatro!) che trascende il testo: ma essere veicolo vivente del testo stesso», attraverso una recitazione senza enfasi, avvertendo soprattutto nella parola declamata dell’attore, uno dei peggiori vizi del nostro teatro. Egli sosteneva così che la fuga dalla convenzione potesse avvenire attraverso parlati espressionistici, oppure caricaturali, cioè attraverso la presa in giro sia dei vari italiani parlati medi, sia della convenzione teatrale stessa. Per questo Eduardo De Filippo era grande attore in assoluto; recitando in dialetto o in un italiano icasticamente regionalizzato, egli non usava un napoletano naturalistico, ma creava una purissima lingua teatrale, che era proprio invenzione poetica sua. Un’ultima citazione ci consegna Pasolini e ci impone sempre di leggere il suo discorso nella sua valenza di meta-discorso: «Facendo parlare i miei personaggi anziché una lingua naturalistica o puramente informativa, li facevo parlare il metalinguaggio della poesia, riuscirei la poesia orale come una tecnica nuova, che non può non costringere a riflettere sulla poesia stessa e sulla sua destinazione».
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