MILANO – Con Civil War, Alex Garland esplora un genere – apparentemente – lontano da lui (il war movie), ma che in realtà racchiude la distopia e l’orrore che il regista inglese ha già dimostrato di saper raccontare all’interno della sua filmografia (ricordate Ex Machina e Annientamento?). Così Garland ci mostra un’America e una visione del mondo che nell’esorcizzare le paure della società, finiscono per avvicinarci ad una realtà possibilissima e – a ogni notizia – sempre più reale. Ma facciamo un passo indietro: Civil War, che finora è anche la più grande produzione cinematografica per la A24, racconta di un’America sull’orlo del collasso, dilaniata da una nuova guerra di secessione e tenuta in ostaggio dal suo stesso Presidente. Ogni riferimento a Trump e a quello che avvenne il 6 gennaio del 2021 (non) è puramente casuale.

Durante gli ultimi giorno del conflitto, Lee (Kirsten Dunst) e Joel (Wagner Moura), reporter di guerra, vogliono intraprendere un viaggio tra terre desolate e città distrutte per arrivare a Washington e intervistare il Presidente (un inedito Nick Offerman) prima che non sia più possibile. A mettere a rischio la propria vita per raccontare la verità si unisce a loro anche Sammy, un mentore per i due (Stephen McKinley Henderson) e la giovane Jesse (Cailee Spaeny), che un giorno sogna di diventare come Lee. Ecco, come detto, l’America filmata da Garland sembra una versione di quello che sarebbe potuto succedere se l’attacco al Campidoglio del 2021 avesse avuto un risultato più felice per Donald Trump e se i suoi sostenitori fossero stati più numerosi e più feroci.

Garland tratta queste lande post-apocalittiche alla stregua di un’invasione zombie (lui che ha iniziato come sceneggiatore per 28 giorni dopo di Danny Boyle) in cui gli unici umani che troviamo sono sospesi in una dimensione di incredulità e orrore (come in Annientamento, Men o Ex-Machina). Kirsten Dunst ha una capacità magnetica di reinterpretare le certezze della società che collassano: inizia determinata, finisce spezzata. Cailee Spaeny fa il percorso inverso come l’altra faccia della medaglia, la metafora delle nuove generazioni. Gli altri compagni e compagne di questo road movie si uniscono come tasselli di un puzzle che rappresenta gli eccessi e la follia della guerra.

Ogni personaggio vuol conquistare il suo spazio nel tentativo di scattare la foto migliore: lo fa lo stesso Garland sovrastandoli con la camera e rendendoli piccoli di fronte ad una visione della guerra ambiziosa, curata nel suono e nella sua fotografia colorata e “vivace”. La tecnica del regista prende il sopravvento anche sulla storia, non proprio centrata e privata di approfondimenti sicuramente necessari, e che finisce per essere solo scalfita e trattata con una certa ingenuità. Civil War non è ovviamente un film apolitico, anzi, ma sicuramente sembra parlare più delle persone in generale che degli americani o degli Stati Uniti d’America di per sé.

In una delle scene più al cardiopalma del film con un cameo del sempre bravo Jesse Plemons (marito della Dunst nella vita reale), lui chiede al personaggio di Wagner Moura da che parte dell’America vengono e Joel gli risponde: «Non importa, siamo tutti americani». È pur vero che Alex Garland ha sempre lavorato per sottrazione, privando consapevolmente le sue storie di quegli elementi in più per indagare in maniera minimalista (e filosofica) sulle anime dei suoi personaggi (ma come visto anche in Men, è un approccio rischioso).

La desolazione di Civil War è così fatta a scompartimenti e ogni sua parte potrebbe vivere di vita propria tra le sue esplosioni e le sue morti. Attenzione alla colonna sonora, firmata come sempre dalla coppia formata da Geoff Barrow dei Portishead e Ben Salisbury, con Garland dal primo film. Una pellicola che dimostra ancora una volta la grandezza di Garland che, in questa virata di genere, elabora una storia che vive di storie, ognuna espressione del talento di un regista che continua a crescere, pellicola dopo pellicola…
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