ROMA – La breaking news è arrivata, distrattamente e via notifica, dalla CNN: Bruce Willis si ritira. Letta in fretta, al momento senza nemmeno troppo capirla, nel via vai delle giornate strette da una frenesia che non porta da nessuna parte. Poi, il primo vero pensiero, qualche minuto dopo. Confuso, perché certe notizie generano sempre un’improvvisa confusione, spezzando le certezza, le comfort zone che, con fatica, abbiamo imparato a costruire attorno a noi. Sopratutto quando riguardano le certezze che arrivano direttamente dagli idoli. Idoli, appunto, parola strana. Utilizzata per affrancare oggetti o immagini che potrebbero avere peculiarità straordinarie, addirittura divine.

Per chi scrive, e per la generazione cresciuta durante i meravigliosi Anni Novanta, Bruce Willis è (perché il tempo verbale sarà sempre e comunque al presente) una certezza, colui che ha reso il genere maschile, nell’accezione più stretta del termine, un modello a cui aspirare, tra nobiltà d’animo, fascino sghembo e, perché no, qualche cazzotto ben steso. Così, la notizia del ritiro, rivelata dai suoi famigliari, si scontra drammaticamente con il motivo che l’ha portato ad abbandonare i set: una malattia dal nome strano, che per linguistica sembra essere simile alla parola apatia, pur non avendoci nulla a che fare. È molto peggio. La malattia di Bruce è probabilmente irreversibile e destinata a peggiorare.

Allora, di corredo, il secondo pensiero: non è giusto. Egoisticamente parlando, non è accettabile che un idolo, l’emblema assoluto di una Hollywood ormai seppellita sotto il politicamente corretto, sia in preda ad un incubo da cui non può fuggire, e in cui – di riflesso – siamo finiti anche noi, costatando per l’ennesima volta la vulnerabilità umana. Ecco, vulnerabilità. Nemmeno se sei il last action hero per eccellenza, nemmeno se sei il John McLaine di Die Hard, che altro non voleva se non passare il Natale con sua figlia. E nemmeno se sei il Butch di Pulp Fiction, colui che, nonostante tutto, ha fatto la cosa giusta nel momento giusto, consegnandosi alla storia del cinema come uno tra i dieci migliori personaggi di sempre – esageriamo? No.

Perché, comprendere (e non necessariamente accettare) la vulnerabilità di Bruce Willis vuol dire comprendere che il cinema – o meglio, la sua costruzione – è solo una grande, beffarda menzogna. La notizia dinamitarda, è un getto d’acqua ghiacciata sull’immaginazione di un pubblico che non smetterà di ringraziarlo per avergli reso la vita, giusto il tempo di un film, un po’ meno scontata, un po’ meno annoiata. Non serve tirare giù la lista delle sue pellicole, ma è fondamentale rimarcarne la sua traccia: c’è sempre stata una fortissima dose di passione e umorismo, mischiata alla necessità di non prendersi quasi mai sul serio. Per questo, dichiaratamente, avremmo voluto essere come lui: per far colpo sulle ragazze, per essere l’eroe della porta accanto, per saper ridere di noi stessi. Bruce Willis. Imperfetto, coraggioso, essenziale, umano. L’apoteosi hollywoodiana al servizio dell’individuo semplice, ammaliato da qualcosa che adesso abbiamo capito esistere solo nella dimensione di un sogno che, nonostante tutto, teniamo stretto accanto a noi. E accanto a lui.
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