MILANO – Cominciò tutto un giorno di fine primavera, a Los Angeles. Era il 12 giugno del 1981 quando nelle sale americane arrivò I predatori dell’arca perduta di Steven Spielberg. In Italia sarebbe arrivato qualche mese dopo, prima alla Mostra di Venezia, poi al cinema il 6 ottobre, ma nel frattempo il primo capitolo della saga era già leggenda, con oltre 200 milioni di dollari di incasso e una figura destinata a divenire un simbolo del Novecento cinematografico: Henry Jones Jr in arte Indiana Jones. Quarant’anni dopo, il mito è ancora intatto, con un quinto film in lavorazione e, soprattutto, con una figura che viene tramandata di generazione in generazione, conquistando nuovi adepti ad ogni stagione. Possibile? Sì.

Così, per capire e per raccontare per l’ennesima volta una storia che non smettiamo di voler ascoltare, a quarant’anni dall’uscita, un (meraviglioso) documentario francese reso disponibile da Arte, Indiana Jones: The Search for the Lost Golden Age, (lo potete vedere qui in lingua originale sottotitolato in inglese) riparte dagli inizi di tutto, dall’età dell’oro ormai perduta, dalle prime idee su carta e dalle ispirazioni, da quel cappello di feltro finito sulla testa di Tom Selleck per un attimo fino alla Paramount che non voleva Spielberg alla regia, senza dimenticare che George Lucas era piuttosto scettico sul prestito del suo Han Solo di Guerre stellari all’amico Steven.

Si parte con una scena inedita, divertentissima, con Spielberg che gioca sul set con Harrison Ford che poi lo zittisce, ma il documentario diventa subito una godibile montagna russa, tra le note di John Williams, il cappello, i problemi di produzione, Indiana Smith che diventa Indiana Jones e che parte (anche) dall’eterna passione del buon Steven per James Bond (vi ricorda nulla il completo bianco con fiore rosso indossato da Ford ne Il tempio maledetto?). «Sai Steven, questo progetto è come un film di Bond. Solo che è molto meglio…», ghigna Lucas a un certo punto, ricordando le parole che disse al socio.

Qualcuno obietterà a questo punto che sono storie già sentite, che si sa già tutto, eppure la magia di Indiana Jones sta proprio qui, nel fatto che in realtà non ne abbiamo mai abbastanza, ne vorremmo sapere sempre di più, vorremmo altro, e altro, e ancora non ci basta. Così, ecco Spielberg che ricorda che Lucas gli disse che se avesse girato il primo film, avrebbe poi dovuto girarne anche altri due (bluffando, non c’erano altre storie già scritte), ed ecco Selleck nel suo test con cappello e giacca poco prima di rimanere per sempre Magnum P.I. ed è sicuramente stato meglio così perché Indiana Jones con i baffi non sarebbe stata proprio cosa.

Poi compare sul set Harrison Ford, che si era preso un paio di mesi di vacanza per rimettere a posto la sua nuova casa e a quel punto riceve la telefonata di George: «Sapevo che stavano lavorando a questo progetto da tempo, ma ero convinto che avessero già il protagonista. Invece no, ancora lo stavano cercando!». Il documentario finisce con un fuori scena de Il tempio maledetto, con Spielberg, serio, che si chiede come sarà il film rivisto tra dieci anni. A quel punto arriva Ford con un bicchiere di acqua gelata in mano. Solleva il cappello del regista e glielo versa in testa, ridendo. E forse è proprio questo quello che continuiamo ad amare di Indiana Jones: l’infinita leggerezza con cui venne costruito il mito.
- Qui potete vedere Indiana Jones: The Search for the Lost Golden Age
- REVISIONI | Indiana Jones e l’ultima crociata
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