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Filippo Meneghetti: «Due, l’Oscar, l’autocensura e la mia storia d’amore thriller»

Barbara Sukowa e Martine Chevallier, l’esclusione e la fiducia : il regista si racconta a Hot Corn

filippo meneghetti
Filippo Meneghetti sul set di Due con Martine Chevallier, Barbara Sukova e Léa Druker

ROMA – Incontriamo Filippo Meneghetti, italiano trapiantato in Francia «per amore», in un albergo a due passi da Piazza Cavour, a Roma. È in Italia per accompagnare l’uscita di Due – dal 6 maggio in sala grazie a Teodora -, debutto al lungometraggio che gli è valso un César, una nomination ai Golden Globes e la selezione per rappresentare la Francia agli Oscar come miglior film straniero. Una serie di incontri con il pubblico – tutti sold out – che testimoniano la voglia di tornare al cinema e l’interesse verso un titolo che nei mesi è diventato un vero e proprio caso. La storia? Quella di Nina e Madeleine, due donne ormai adulte legate da una storia d’amore tenuta segreta per decenni fino a quando un incidente non sconvolgerà il loro quotidiano e la loro relazione. «Non mi interessava predicare a chi era già convertito», ci racconta il regista, «Mi interessava fare un film in cui alla fine lo spettatore ha dimenticato l’età e l’orientamento sessuale delle protagoniste».

Filippo Meneghetti
Nanni Moretti e Filippo Meneghetti al Nuovo Sacher per uno degli incontri con il pubblico

Due racconta la storia d’amore tra due donne adulte ma ha il ritmo del thriller. Perché questa scelta?

La storia si poteva prestare al melodramma, ma fin dall’inizio avevo l’idea di flirtare con il genere, di utilizzare alcuni elementi del thriller e della suspence. Anche perché non volevo che la storia fosse punitiva per il pubblico. Anzi, volevo giocarci. Questa è una storia di non detti, di segreti, di informazioni negate. E il thriller funziona esattamente così. Era uno strumento adeguato.

Il pianerottolo che collega i due appartamenti lega metaforicamente anche due donne molto diverse. Come ha lavorato sulla costruzione degli spazi?

Il dispositivo architettonico è il cuore del film. L’idea stessa del film mi è venuta in mente grazie a quello. Avevo da anni l’idea di raccontare una storia di autocensura e di esclusione ma non avevo ancora trovato la prospettiva giusta. E nel cinema si è sempre alla ricerca di metafore, di qualcosa da filmare che racconterà quello che succede all’interno del personaggio senza bisogno di dirlo. Quando, ormai dieci anni fa, sono andato a trovare un amico a Verona ho scoperto che le sue vicine di casa erano due donne rimaste vedove nello stesso periodo che per tenersi compagnia vivevano come Nina e Madeleine, con le due porte aperte sul pianerottolo. Da quel momento lì mi è sembrato di aver trovato la chiave per raccontare questa storia.

Martine Chevallier in una scena di Due di Filippo Meneghetti

I due appartamenti, a metà film, scopriamo essere molto diversi…

Sì, sono lo specchio dell’animo delle due protagoniste. Quello di Madeleine è così pieno di piccoli oggetti che uno accumula nella vita, oggetti senza senso ma che raccontano la nostra esistenza. Con la scenografa, Laurie Colson, dicevamo che è un appartamento così caloroso che non hai voglia di viverci. Un luogo che sembra l’alcova del loro amore ma che si trasforma in una prigione. Mentre quello di Nina è un appartamento fittizio. Già in scrittura era sottolineato di non entrare mai nella sua casa prima dell’incidente. Quell’appartamento diventa lo specchio del suo stato d’animo così spoglio e duro. Anche il pianerottolo sembra uno spazio quotidiano e poi diventa una frontiera. L’idea del film nasce da questo: da una porta sempre aperta che diventa chiusa. Una metafora semplice dell’esclusione e dell’autocensura e delle cose che ci costringono tutti quanti. Non bisogna essere anziani e omosessuali per vivere quel tipo di emozioni.

La reazione di Anne, la figlia di Madeleine, contiene un dualismo. Da un lato è scioccata nello scoprire la relazione di sua madre, dall’altro si sente tradita da lei…

Ho scritto il film insieme a Malysone Bovorasmi e Florence Vignon. Ci dicevamo sempre che una parte di pubblico si sarebbe identificata e sarebbe entrata dentro la storia attraverso il personaggio di Anne. È stato quello più difficile da scrivere. Ho avuto la fortuna di avere Léa Druker che è un’attrice straordinaria, sensibile, fine nella lettura delle cose. Anne non è omofoba. Si sente tradita, è gelosa. Volevamo fare un film sull’amore in tutte le sue declinazioni. Anche quello filiale può sentirsi tradito. Per lei sua madre è il suo modello di vita, di donna e scopre di essersi costruita su un modello del quale non aveva capito nulla. Ogni rapporto si basa sulla fiducia. Nel momento in cui si rende conto che sua madre non ha abbastanza fiducia in lei per raccontarle la verità reagisce con rabbia. Le persone ferite fanno cose orribili. Sopratutto in amore.

Léa Drucker e Martine Chevallier in una scena del film

Barbara Sukowa e Martine Chevallier sono le due attrici protagoniste. Come le ha scelte?

Sono due attrici straordinarie, ognuna nel suo campo. Barbara è una leggenda del cinema indipendente mentre Martine un’istituzione della Comédie-Française. Per me era importante trovare delle attrici capaci di racontare la loro età con onestà. Viviamo in una società ossessionata dalla gioventù, dalla bellezza e dalla perfezione del corpo. Siamo tutti a disagio con i nostri corpi perché i modelli non sono plausibili. Sento la responsabilità di fare immagini che vadano in un’altra direzione. Anche perché, e credo il film lo dimostri, si può essere belli e affascinanti a sessant’anni senza essersi rifatti. La prima cosa che ho detto a Barbara e Martine è che avremmo fatto dei primi piani molto stretti e con poco trucco. Hanno avuto il coraggio di dare fiducia a un regista all’opera prima.

Cosa l’ha spinta a raccontare questa storia?

Ho voluto fare questo film perché ho visto nel corso della mia vita persone che sono state importanti per me vivere situazioni similari, anche se la storia è completamente inventata. Ho iniziato a scriverlo intorno ai 33 anni. Facevo leggere la sceneggiatura a persone anagraficamente vicine alla loro età. Una persona a Parigi mi ha detto che conosceva due donne che vivevano esattamente la stessa situazione di Nina e Madeleine. Ho provato a lungo a incontrarle e a far leggere loro la sceneggiatura ma non hanno voluto. Immagino avessero paura che avrei potuto utilizzare elementi della loro vita. Spero vedano il film o che l’abbiamo visto.

Filippo Meneghetti
Barbara Sukowa sul set del film di Filippo Meneghetti

Il titolo del film si riferisce alla coppia protagonista ma anche la duplicità che caratterizza la vita di Madeleline…

A Martine dicevo sempre che Madeleine è un’impostora. Tiene il piede in due scarpe. È come se interpretasse due ruoli. E questa nozione di interpretare un ruolo era fondamentale: la vita come rappresentazione. Lo facciamo sempre tutti. Abbiamo un margine di menzogna sociale. Il film si chiama Due anche per la simmetria. I due personaggi invertono. All’inizio è Madeleine che interpreta un ruolo contro la volontà di Nina. Poi però la stessa Madeleine, nella seconda parte, compie ogni gesto per rompere la recita mentre Nina, improvvisamente, si trova ad interpretare il ruolo della vicina.

In questi mesi ha avuto modo di confrontarsi con le reazioni degli spettatori?

Il più grande regalo di questo film durato sette anni è il rapporto che ha instaurato con il pubblico. Ora il film esce in Italia, ma ha girato il mondo. Ed io con lui fisicamente nei primi sei mesi e poi via Zoom. In molti mi hanno raccontato delle loro vite intime, mi sono arrivate lettere di persone contrarie alle tematiche LGBTQ+ che poi hanno sentito Madeleine e Nina come delle sorelle. Per me sono quelle le cose che danno un senso a questi sette anni.

Una scena di Due di Filippo Meneghetti

Nel film il suono ha un ruolo importante, dal gracchiare dei corvi alla voce ovattata dietro le porte. Come ha lavorato su questo aspetto?

Credo che il suono sia poco utilizzato al cinema. Trovo che permetta di lavorare sull’emozione dello spettatore in modo più laterale, subliminale e che garantisca possibilità straordinarie. Già in sceneggiatura scrivo per il suono. C’era quest’idea molto forte di intensificare i rumori del quotidiano, dalle cipolle che bruciano in padella al gracchiare dei corvi. Penso che il suono permetta di far fare allo spettatore l’esperienza psicologica ed emotiva vicino a quella del personaggio. Permette un’identificazione maggiore perché lo spettatore è meno cosciente del suono. Guarda l’immagine mentre il suono, subdolamente, cresce.

Perché ha scelto Chariot di Betty Curtis come colonna sonora?

Anche la canzone era già presente in sceneggiatura. Con Malysone scrivendo ci siamo sempre detti che era importante la sottrazione, in particolare nei dialoghi. Avevamo una serie di regole e ci siamo proibiti di dire o far dire troppe cose. Nella scene madri della nostra vita le cose importanti non si dicono. E volevamo che il film fosse come la vita da questo punto di vista. Però non volevamo neppure proibirci l’emozione. La canzone è italiana, quindi il pubblico italiano capisce cosa dice il testo mentre quello francese no. Volevamo che, come l’amore di Nina e Madeleine, le cose fossero lì ma non fossero viste. La canzone è scelta anche per il testo perché dice quello che loro non si dicono mai e che noi non facciamo mai dire a nessun personaggio. La canzone dice il lirismo, l’amore e l’emozione senza mai farle dire a i personaggi e senza mai essere in primo piano.

Un’immagine di Due di Filippo Meneghetti

Sta lavorando a un nuovo film?

No, non sto scrivendo. Anche se sto iniziando a riflettere. Fino a metà marzo l’impegno con gli Oscar e i Golden Globes è stato un lavoro quotidiano. Purtroppo non fatto a Santa Barbara bevendo cocktails come mi hanno raccontato che succede abitualmente, ma via Zoom dalla mia camera. Non mi lamento ma sarebbe potuta essere un’esperienza diversa (ride, ndr)

Qui potete vedere il trailer del film:

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