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HOT VIDEO | Willie Peyote: «Mai dire mai, tra Boris, Black Mirror e David Foster Wallace»

Da Rick & Morty a Eminem, tra errori, visioni e paradossi: il rapper e cantautore si racconta a Hot Corn

willie peyote
Guglielmo Bruno in arte Willie Peyote, classe 1985.

ROMA – Mentre scriviamo, il video di Mai dire mai (La Locura) ha superato il milione di visualizzazioni su YouTube. Realizzato dai Sans Film (ovvero i registi Gabriele Ottino, Paolo Bertino e Sharon Ritossa), accompagna il testo scritto da Guglielmo Bruno aka Willie Peyote, rapper e cantautore reduce da Sanremo dove era andato con l’intenzione di essere un “corpo estraneo” finendo, invece, per piacere a tutti. «Il paradosso: arrivo lì con la sensazione che non mi capiscano, quando invece mi hanno capito tutti», ci racconta lui divertito al telefono mentre parla di cinema e del video, delle citazioni di Boris, di David Foster Wallace e dell’impossibilità di girare la testa dall’altra parte quando: «il presente è troppo ingombrante per far finta di niente».

Willie Peyote
Un frame dell’inizio del video di Mai dire mai.

Per il video de La tua futura ex moglie con Libero De Rienzo citavate Fino all’ultimo respiro. Per Mai dire mai (La Locura) come hai lavorato con i Sans Film?

«Abbiamo vagliato diverse ipotesi e insieme abbiamo capito che era il caso di dare un taglio di un certo tipo alla canzone per cercare di contestualizzarne il testo. Gabriele Ottino, che è il regista del video, si è occupato anche dei visual dei miei ultimi concerti. Abbiamo instaurato un rapporto per cui riesce sempre a mettere in video le cose che dico. Quindi era un lavoro relativamente facile da fare insieme. Il tema della canzone era abbastanza Black Mirror e abbiamo pensato di ispirarci anche a quello. I riferimenti a Boris, poi, ci sono e sono tutti degli Easter Eggs. Ma l’obbiettivo era più cercare di restituire quest’idea di futuro distopico. Che in realtà è il nostro presente».

Leggendo le righe che hai scritto per accompagnare il tuo pezzo torna alla mente un brano di Tenco, Io sono uno. Entrambi citate persone che parlano ma non hanno nulla da dire. Non sembra essere cambiato molto dal 1966 ad oggi…

«Ma perché in fondo non è possibile che cambi davvero l’approccio umano a certe questioni. È così dai tempi dei romani: “Dategli da mangiare e un modo per intrattenerli” («Il popolo due sole cose ansiosamente desidera: pane e giochi circensi», Decimo Giunio Giovenale, ndr). Cambiano i mezzi attraverso i quali cerchiamo di essere intrattenuti. E forse i mezzi che abbiamo a disposizione oggi velocizzano tutto il processo, ma per il resto il succo non può cambiare».

Il pesce rosso del video di Mai dire mai.

Sei nato nel 1985. Se diciamo Generazione MTV ti ci ritrovi? Quali erano i video che aspettavi di vedere in quei pomeriggi davanti la TV?

«Certo! Mi ricordo perfettamente il video di My Name Is di Eminem perché è uno di quelli che più di tutti mi ha influenzato, ma lo stesso anche What’s My Age Again dei Blink 182. Sono figlio di quella generazione, quella di mezzo tra l’analogico e il digitale. È bello riuscire a parlare entrambe le lingue ma siamo giovani per la generazione precedente e vecchi per la successiva. Lo riconosco anche nei testi che scrivo: qualcuno di Mai dire mai dice “Il testo ha troppe parolacce, va troppo veloce e non lo capisco”, e chi dall’altra parte replica: “Eh ma è una sfilza di commenti da boomer”. Come può essere entrambe le cose? Accetto entrambe le obiezioni, perché sono vere entrambe. Spesso facciamo l’errore di non accettare il punto di vista degli altri solo perché non è come il nostro. Io cerco di non fare mai questo errore. Ne faccio molti altri (ride, ndr), ma cerco di non fare questo».

Mai dire mai è una fotografia della nostra attualità. Sei salito sul palco dell’Ariston senza risparmiare nessuno. Quali sono le reazioni che ti hanno colpito di più? 

«Le reazioni sono state tutte positive. E la cosa mi ha stupito. Il messaggio è passato ed è anche piaciuto. È un po’ cambiato l’approccio del pubblico verso Sanremo. Forse deve cambiare un po’ l’approccio di Sanremo a se stesso, ma devo ammettere che avermi concesso di essere su quel palco con questo tipo di canzone significa aver fatto un passo autoironico importante. Apprezzo molto la scelta e l’ho trovata molto rischiosa anche per loro. Ma ha pagato per tutti. Non ho niente da recriminare. Il premio che ho ricevuto è il massimo riconoscimento a cui puntavo. Mi sentivo più a disagio in seconda posizione che non ad essere dove sono finito».

willie peyote
Willie Peyote in un’altra scena del video di Mai dire mai

Più volte hai affermato di essere andato a Sanremo con la volontà di essere un corpo estraneo. Poi, a un certo punto, sei arrivato secondo in classifica. Hai avuto paura di perdere il controllo della tua narrazione? 

«Credo che io e i miei autori siamo stati bravi a mettere il vestito giusto alle parole perché si compensavano a vicenda. L’ho capito dalla prima sera che il messaggio era arrivato. Col tempo forse ho avuto più lo spirito contrario, di essere cioè quasi spaventato di essere troppo capito. Il paradosso era che arrivavo lì con la sensazione che non mi capissero, quando invece mi stavano capendo tutti, mi sembrava troppo. È follia. Col senno di poi che cazzo ci vai a fare se poi hai paura di piacere troppo? Ma alla fine non penso di essere capace di scegliere una strada e starci sopra (ride, ndr)».

Il tuo pezzo ironizza amaramente su argomenti molto attuali, dalla scena trap al femminismo a Sanremo stesso. Ma oggi appena si dice qualcosa a voce alta c’è qualcuno che si offende…

«Come dicono i miei amici, ho la tendenza a mettere il culo tra le pedate. Mi viene naturale farlo. E quando le cose stanno andando bene, peggioro la situazione perché non mi sento a mio agio. Il paradosso era: “Sta andando troppo bene. Devo fare qualcosa per sabotarmi”. Non ho scritto il pezzo per Sanremo ma pensando a Sanremo. Non ho scritto Mai dire mai per andare all’Ariston ma è successo. E questo è stato un po’ l’approccio a tutto. Mi sono lasciato trasportare. È adesso non so dirti neanche più com’era quella settimana lì. È stato tutto talmente veloce e isolato dal resto del mondo che non ho i ricordi ben chiari di com’era stare su quel palco. Non ho fatto ancora in tempo a metabolizzare. Ma forse non lo farò mai del tutto».

Willie Peyote
Black Mirror? Un frame del video di Willie Peyote.

Ma il momento subito prima di salire sul palco la prima sera te lo ricordi?

«Ricordo che ero molto teso. Poi ho chiuso gli occhi dieci minuti, li ho riaperti e ho notato che la tensione andava sparendo. Quando sono arrivato all’Ariston ero tranquillissimo. E ne ero stupito. Paradossalmente lo sono stato molto di più le serate di giovedì e venerdì. Una volta messo i piedi sul palco ho sentito che c’era qualcosa che non andava. Non ero più padrone di quello che stavo facendo. Ci sono momenti in cui vado con il pilota automatico e non mi rendo nemmeno conto che certe cose le sto facendo come dovrei».

“Riapriamo gli stadi ma non teatri né live”. Sanremo ha permesso a tante persone del mondo dello spettacolo di tornare a lavorare dopo un anno di stop forzato…

«Il direttore d’orchestra è anche il tastierista della band. Con gli autori lavoro da sempre. Al pezzo hanno suonato i miei musicisti di sempre che mi accompagnano live. Ho cercato di portare quante più persone con me che erano ferme. Tutte le cose che ho fatto, le ho fatte anche per far lavorare le persone ferme da un anno. Ma anche tutto quello che è stato fatto a livello collaterale è stato realizzato includendo quante più persone possibili. Cerco sempre di fare così. Anche perché il mio è un progetto solista solo formalmente e si regge in piedi perché c’è tanta gente che ci lavora. Quindi è giusto che ogni volta che si va a lavorare lo si faccia con il maggio numero di persone possibile».

L’ossessione dei like: altro passaggio di Mai dire mai.

Durante il Festival ha tenuto una rubrica su La Stampa: Una cosa diverte che non farò mai più. Una chiara citazione a David Foster Wallace. Cosa ci trovi dentro ai suoi libri?

«Beh, a parte una grande capacità narrativa, una grande ironia e autoironia. Che poi è una cosa che cerco di fare anche io. È una cosa che mi ha sempre colpito. Una cosa divertente che non farò mai più è un libro che fa proprio ridere. Non in maniera sguaiata, ma fa quel servizio che piace a me che che credo l’arte debba fare. Per questo ho un certo tipo di riferimenti autoriali, di satira, di film e cartoni animati. Mischio tutto insieme, da South Park a David Foster Wallace passando per Louis C. K. e Dave Chappelle. Metto tutto insieme perché è quello che cerco io nella vita: parlare con ironia delle cose. Anche quelle brutte. È evidente che non tutti abbiamo la stessa ironia. Questo l’ho capito ancora una volta di più dopo Sanremo (ride, ndr)».

La scrittura di Wallace era molto visiva. Anche il tuo modo di scrivere riesce subito a creare un’immagine nella mente di chi ascolta. Da chi ti senti influenzato a livello letterario?

«I libri o gli autori che mi hanno formato appartengono a tanto tempo fa. Ricordo che la mia formazione per diventare un rapper, tra i diciotto e i vent’anni, è passata attraverso altri rapper o Charles Bukowski. Ma anche Una banda di idioti di John K. Toole, La versione di Barney, la scoperta di David Foster Wallace mi hanno sicuramente cambiato ma me ne sono accorto meno. È stato più un processo di osmosi. Non mi stavo più cercando. Ho introiettato le influenze in un modo più consapevole, nella misura in cui sapevo che non mi avrebbero condizionato. Ancora oggi studio tutto quello che mi piace e cerco di capire perché mi è piaciuto».

I preferiti di willie Peyote: Rick e Morty.

Nell’ultimo anno ci sono visioni che ti hanno colpito tra film e serie tv?

«Di cose nuove non c’è nulla che mi abbia fatto gridare al miracolo. Forse Rick e Morty. Sono più fissato con quella roba lì. Di film che mi abbiano sconvolto nell’ultimo anno non mi viene in mente nulla. È stato un anno in cui essendo tutto fermo ci siamo guardati alle spalle. Ho rivisto tanti film vecchi che mi piacevano: da American Beauty a Non è un paese per vecchi passando per Seven, tutto Tarantino, Elio Petri. È un processo che ho visto fare a tutti. Arrivavamo da un periodo in cui tutto accadeva in fretta e c’era sempre la sensazione che domani sarebbe stato un giorno in cui accadevano un miliardo di cose. Eravamo presi bene ma, da un lato, anche un po’ stanchi. Tra la pandemia, il lockdown che ti impedisce di uscire di casa e sempre la stessa notizia che gira per due mesi, non sei più abituato ad aspettare. E quindi ti blocchi e torni indietro, perché l’unica cosa che conosci è il tuo passato».

Anche la tua scrittura è molto concentrata sul presente…

«Non ho un gran rapporto con il mio passato. Sono cresciuto cercando di scappare dalla mia infanzia e adolescenza. Non sono abituato a stare bene con la nostalgia. Credo però sia stata una forma lenitiva per noi rifugiarci nella nostalgia nel periodo del lockdown, ma non mi piace il passato, non mi piace scrivere al passato. Non conosco il futuro. Certe volte azzardo delle previsioni e magari ci azzecco, però oggi esiste solo il qui e ora. Purtroppo il presente è troppo ingombrante per far finta di niente. Quello che ho cercato di fare anche a Sanremo non era parlare al presente perché voglio fare il cronista. È che non c’è altro. Non possiamo pensare di chiudere le porte e smettere di pensare. Io non sono capace di farlo. È l’errore che faccio sempre e che farò sempre nella vita: ma se una cosa esiste non ha senso non parlarne».

Willie Peyote e la citazione a Santa Maradona

Mai dire mai si apre con una citazione a Boris. Personaggio preferito? E se ti chiedessero di scrivere la sigla per la nuova stagione?

«Non mi sento all’altezza di scrivere una sigla bella come quella che fecero gli Elii al tempo. Non credo di avere la scrittura adatta a quel tipo di situazione. Mi piacerebbe, ma è difficile perché è ho un taglio troppo realistico, mentre la cosa bella di Elio è che riusciva a trasformare dei tormentoni della serie in immagini in un modo leggero. Il mio personaggio preferito? Mi piacciono tutti perché ognuno ha una bella sfumatura. Ma se ne devo sceglierne uno, dico Benedetto, lo sceneggiatore di Troppo frizzante. Quel tipo di milanese visto sul luogo di lavoro che mi fa tanto ridere».

Qui potete vedere il video di Mai dire mai (La Locura):

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