ROMA – C’è una sequenza nel terzo episodio di We are who we are in cui Caitlin (Jordan Kristine Seamón) domanda a Fraser (Jack Dylan Grazer) perché legga un libro di poesie. Il ragazzo le risponde che è per lo stesso motivo per cui non gli piacciono i vestiti che indossa la neo amica definendoli «fast fashion» mentre lui è alla ricerca di «qualcosa che significhi qualcosa». Ecco, la serie diretta e scritta da Luca Guadagnino – insieme a Paolo Giordano e Francesca Manieri – non è «fast television» ma più simile a una poesia. Il contrario di quel binge watching compulsivo con cui spesso ci si approccia a una serie tv. Non si guarda We are who we are – dal 9 ottobre su Sky Atlantic – per scoprire cosa accadrà negli ultimi, decisivi minuti di un episodio che spingono a volerne sapere di più.

No, perché la prima serie tv del regista palermitano non procede per climax o colpi di scena. We are who we are è un flusso continuo di parole, emozioni, atmosfere in cui Guadagnino mischia italiano e inglese, militari e civili, cattolici e musulmani, bianchi e neri. Tutti insieme riuniti in una striscia minuscola di America in Italia, un non luogo che non è né l’una né l’altra, una zona promiscua in cui alle regole militari si contrappone una libertà curiosa. Si tratta della base militare statunitense di Chioggia di cui diventa comandante Sarah (Chloë Sevigny), colonnello e madre di Fraser, quattordicenne newyorchese con i capelli ossigenati e lo smalto alle unghie catapultato in un micro universo in cui «le corsie dei supermercati sono uguali in tutto il mondo per non farti sentire perso».

Qui incontra Caitlin, adolescente confusa sulla sua sessualità che, nascondendo i lunghi capelli neri sotto un berretto, si fa chiamare Harper sperimentando una vita parallela come ragazzo. E attorno a loro un gruppo di amici – americani e italiani – con cui Luca Guadagnino dipinge un affresco su quella stagione nebulosa della vita che è l’adolescenza. We are who we are parla della scoperta di sé, dei dubbi, delle sperimentazioni, del sesso, della rabbia e delle emozioni amplificate che si vivono a quell’età. Otto episodi – con i primi due che si muovono in parallelo mostrando l’arrivo di Fraser alla base dalla sua prospettiva e da quella di Caitlin – in cui Guadagnino si prede i sui tempi, indugia sui dettagli, e, a differenza di Euphoria, non racconta un’adolescenza disperata in cui i ragazzi sono in balia di loro stessi soffermandosi anche sulle vite private dei genitori dei due protagonisti e le loro dinamiche familiari.

Ambientata nel 2016, nei mesi precedenti l’elezione di Donald Trump come Presidente degli Stati Uniti, We are who we are lascia che la politica resti ai margini raccontandola attraverso notiziari e pubblicità lasciati in sottofondo o con l’arrivo alla base di un paio di cappelli rossi con la scritta Make America Great Again mentre la “lunga guerra” in Afghanistan continua a fare vittime. Parole, discorsi, frammenti di dialoghi si accavallano di scena in scena accompagnati dalla colonna sonora di Devonté Hynes, aka Lightspeed Champion, mentre le scelte della music supervisor Robin Urdang, divise brani tra pop e r’n’b che escono dalle cuffie dei giovani protagonisti, sono gli indizi grazie a cui conoscere un po’ di più di Fraser, Caitlin e i loro amici.

We Are Who We Are è il manifesto con cui Guadagnino ci ricorda che siamo liberi di essere quello che volgiamo, amare chi vogliamo, sperimentare quanto vogliamo senza dover chiedere scusa o sentirci in difetto. Un invito a liberarci dal bisogno di ottenere l’approvazione o subire le imposizioni altrui. E lo fa con ironia e sensibilità, potenza e leggerezza attraverso una serie che non è una serie, o meglio, non ha nulla a che vedere con la serialità a cui siamo abituati. E non potevamo chiedere di meglio.
- Luca Guadagnino: «We Are Who We Are? Una serie di desideri e scoperte»
Qui potete vedere il trailer della serie:
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