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Euphoria | Zendaya e la serie scandalo di cui non potrete fare a meno

Lo show in otto episodi della HBO è un ritratto generazionale, girato con raffinatezza e innovazione

ROMA – Quando pensi di sapere tutto sulle nuove generazione, arriva Euphoria e spazza via ogni tua certezza. E quando sei convinto di conoscere l’influenza dei nuovi media sulle persone, di comprendere quale siano le dinamiche social(i) che manovrano e condizionano la quotidianità degli adolescenti e dei ragazzi, ecco che la HBO tira fuori un prodotto al confine di qualsiasi canone. Ma che, nella sua apparenza estrema, si rivela quanto mai reale. Un affacciarsi che diventa immersione totale nell’universo sociale e culturale di una gioventù al suo meglio e al suo peggio, alla ricerca di un’identità con cui definire se stessa e nella speranza, magari, di trovarsi in qualche forma di dipendenza.

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Alcune delle protagoniste di Euphoria

È l’anima addicted che soggioga l’interno di Euphoria (finalmente in Italia, disponibile on-demand su Sky), che ne delinea i personaggi e li definisce nuovamente, dopo averli tratti dall’omonima miniserie israeliana. È, infatti, da un’idea del 2012 di Ron Leshem, Daphna Levin e Tmira Yardeni che prende vita la serie di Sam Levinson, rimaneggiata dallo sceneggiatore, regista e figlio d’arte, di cui l’autore classe ’85 ha dato la propria testimonianza in prima persona. Dal passato turbolento della lotta alla tossicodipendenza, Levinson trae la sua protagonista Rue Bennett e il microcosmo che le ruota vorticosamente – sia nella narrazione, che nell’apparato visivo – intorno, in una fluidità di passaggi e traumi che non lasciano scampo allo spettatore.

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Zendaya e Hunter Schafer sono le protagoniste Rue e Jules in Euphoria

Se è di innovazione nello storytelling di cui bisogna parlare per riferirsi agli incastri dei protagonisti teen e alla loro confidenza con stupefacenti e inibizione sessuale, è nella maestria di Sam Levinson che risiede altresì una delle vere mirabolanti raffinatezze della serie. Nel tunnel dei legami insani e delle abitudini improprie dei protagonisti, l’agilità della scrittura va attorcigliandosi alla prontezza della regia, scorrevole nella sua seppur incisiva capacità di incastrare i dolori – e gli amori – dei personaggi, contraltare elegante della caotica normalità dei ragazzi. Una messinscena in cui è la passione per i generi e la possibilità di alternarli che muove il montaggio e le sue composizioni, mai immobili e mai statiche nella loro brillantezza.

Zendaya in una scena di Euphoria

E, in questa palestra di erotismo ai limiti del pornografico, e di cicatrici che segnano indelebilmente i percorsi dei protagonisti, è Zendaya la vera gemma di Euphoria. Spogliata della frizzantezza che l’aveva resa la bellezza inavvicinabile, ma comunque amorevole di cui rimanere conquistati, l’attrice – che dall’innocenza di Disney Channel è passata al divertissement di Spider-Man e al musical The Greatest Showman – mostra un altro volto. Un modo ben più strutturato e toccante con cui far esprimere la sua Rue, che nell’apatia anestetizzante della droga e della depressione svela una Zendaya dai movimenti e dalle espressioni accentuate, capaci però di scalfirti anche dove sembrava impossibile.

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La Dea Nike di Euphoria?

Scandalo, impudicizia, sgomento: tutto lo scandalo che Euphoria produce non è altro che non la presa di coscienza di un linguaggio generazionale che assume le sembianze di una serie televisiva. Dove la sessualità, il gender, le chat, gli autoscatti osé sono parte integrante di una verità di cui Sam Levinson vuole mettere al corrente, senza esibizionismi. Il riportare una verità che sfuma, però, nella metafisica esibizione della sua puntata finale. Un annebbiamento che si carica di mille e più suggestioni arrivando, addirittura, nei territori della trance e del videoclip, non rinnegando la storia che l’ha condotta fin lì, eppure riuscendo comunque a sorpassarla. Ed è dal baratro in cui si è caduti che non vediamo l’ora di ripartire, riempire un nuovo vuoto, aspettando la seconda stagione.

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