ROMA – Per cominciare a comprendere veramente la grandezza di Will Ferrell, dovete andarvi a recuperare le sue apparizioni in televisione nei panni dell’ormai lontano e dimenticato (visti anche i recenti avvenimenti) Presidente degli Stati Uniti, George W. Bush Jr. Ecco, le sue esibizioni, tra la satira e la risata, sono perfette. Le movenze, gli occhi accigliati, la cadenza texana, sono una lezione di comicità, fin da quando lo incarnò per la prima volta, nel lontano 2000, durante quella fucina di genialità farsesca che è il Saturday Night Live, da dove lo stesso Ferrell proviene. Una prova talmente memorabile che, per ammissione dell’attore qualche anno più tardi, ha, in un certo senso, umanizzato il vero Bush, portandolo ad una popolarità fortissima, suggerendo, quindi, che potrebbe aver nientemeno influenzato gli elettori in quelle fatidiche elezioni.

Lui, apprezzato proprio da Bush (che gli ha sempre fatto i complimenti per l’imitazione) e poi da Obama, tanto da accoglierlo nello Studio Ovale dopo la vittoria del Mark Twain Prize for American Humor nel 2011. La politica, dicevamo. Ferrell, oltre che averla spesso preso di mira nei suoi sketch, l’ha pure, in un certo senso, praticata. Del resto, non è da tutti girare (letteralmente) porta a porta, ad Atlanta, in Georgia, come fece lui qualche anno fa per spingere la popolazione a votare per la democratica Stacey Abrams, nell’agguerrita battaglia contro il repubblicano Brian Kemp, a pochi giorni dalle elezioni di mid-term.

Eppure, la verità è che il talento purissimo di Will Ferrell è stato (e continua a essere, senza ombra di dubbio) sottovalutato in Italia, dove le sue commedie non arrivano oppure arrivano con colpevole ritardo e finiscono subito nel dimenticatoio. Del resto, le commedie (leggere) statunitensi di cui Ferrell è il re indiscusso, membro stabile e instancabile del mitico Frat Pack (composto da Ben Stiller, Vince Vaughn, Steve Carell, Owen e Luke Wilson), nel nostro Paese stentano incredibilmente al botteghino, da sempre. Ed è un grosso peccato, perché vedendo uno dei tantissimi titoli in cui Will Ferrell è protagonista, avviene qualcosa di magico: stacchiamo la spina e, per il tempo di qualche battutaccia e sguardo buffo, ci ricarichiamo completamente.

Infatti, così come nelle sue pellicole cult – da Zoolander a Old School, da Elf ai due strepitosi capitoli di Anchorman, fino a Blades of Glory, Fratellastri a 40 anni e I Poliziotti di Riserva – ma anche in quelle più deboli – Vita da Strega, Derby in Famiglia, Candidato a Sorpresa –, c’è un’intelligenza comica di eccezionale fattura. Una smorfia, una ghigno, un silenzio imbarazzato. Will Ferrell regge qualsiasi copione abbia davanti, che sia quello firmato da un esordiente o da un premio Oscar. Infatti, molti dimenticano che l’attore, oltre ad essere stato diretto da un certo Woody Allen in Melida e Melinda (riscopritelo), da Marc Foster, altro nominato dall’Academy, nell’agrodolce Vero come la Finzione (un capolavoro e probabilmente la sua prova più completa), l’attore è il punto di riferimento di Adam McKay, nome forte della Hollywood contemporanea e premio Oscar, grazie alla sceneggiatura de La Grande Scommessa.

McKay e Will Ferrell, e le risate che ci siamo fatti con il Ron Burgundy di Anchorman (a proposito, il secondo capitolo è il raro esempio di un sequel superiore all’originale, li trovate su CHILI qui) le abbiamo fatte raramente; così come abbiamo amato la strana accoppiata Will Ferrell-John C. Reailly in Fratellastri a 40 anni. E c’è di più, abbiamo amato anche Ferrell e Reilly nello sghembo, malandato Holmes and Watson, per la regia di un altro amico, Etan Cohen (no, non quel Coen). Impossibile quindi non consigliarvi di recuperare in streaming Downhill, remake americano di un bellissimo film svedese come Forza maggiore, e in cui Ferrell fa coppia con un’altra grande diva della risata americana, anche lei poco celebrata in Italia: Julia Louis-Dreyfus di Seinfeld e Veep.
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