ROMA – «Sono sempre irritata dalle persone che insinuano che scrivere narrativa sia una fuga dalla realtà. È un tuffo nella realtà». Con queste parole comincia il quarto lungometraggio da regista di Ethan Hawke, autore incredibilmente interessante, poiché sospeso fin dagli inizi tra letteratura e cinema. Molti lo ricordano per il cult di Peter Weir, L’attimo fuggente, qualcun altro per l’altrettanto nota trilogia dei Before di Richard Linklater e anche per Boyhood, ma quanti invece pensano ad Hawke come firma letteraria e cinematografica di titoli quali L’amore giovane, Mercoledì delle ceneri, Blaze e Un raggio di buio? Pochi, molto pochi, soprattutto in Italia. Eppure Ethan Hawke ancor prima d’essere interprete di veri e propri capolavori, è un romanziere estremamente impegnato, riflessivo, talvolta tormentato, eppure sempre lucidissimo e sagace.
Cresciuto a scrittura, cinema e musica, non ha mai nascosto d’aver fatto tesoro di tutto quel bagaglio culturale che agli autori della Hollywood moderna a suo dire, sembrava mancare. Ecco perché la necessità di misurarsi con un cinema radicalmente indipendente, libero e personale. Ecco perché la volontà di raccontare Flannery O’Connor, che al pari del dimenticato Blaze Foley (che ci aveva raccontato qui a New York) riemerge prepotentemente dalle ombre e dalle pieghe delle pagine. Interpretata dall’unico volto e corpo che Hawke avrebbe potuto spingere fino al limite, senza temere mai alcuna battuta d’arresto. Flannery O’Connor infatti, prende vita sul grande schermo in Wildcat grazie alla prova eccelsa della figlia di Hawke, Maya, salita alla ribalta grazie a Stranger Things, e poi vista anche Do Revenge, e Asteroid City.
Cinema indipendente e cinema familiare – è tale perfino in termini produttivi – si legano indissolubilmente per un biopic che di già visto non ha nemmeno un singolo passaggio o riflessione. Ricercando incessantemente un’originalità stilistica e narrativa che non può far altro, se non dividere in due decisive fazioni i suoi spettatori. O lo si ama, o lo si odia. Con Wildcat Ethan Hawke torna come già accaduto per Blaze, a mescolare realtà, onirismo e finzione immaginifica propria dell’artista raccontato. Accadeva rispetto alla musica, accade ancor più ferocemente rispetto alla letteratura. Lo si potrebbe dunque definire un film di film, che sulle pagine si sofferma soltanto per qualche attimo, quel tanto da riuscire a coglierne atmosfere e sensazioni, che con estrema aderenza prendono vita, divenendo immagini e cortometraggi, interpretati dai medesimi volti e corpi, mutati a seconda della cadenza e della provenienza, ma mai distanti da sé stessi.
Sono spettri generati dalla fervida ma turbata mente della O’Connor. Al tempo stesso, pittoreschi e disperati vicini di casa, bifolchi, amici, viandanti e cittadini qualsiasi di quell’America profonda, che Flannery O’Connor vive e fa propria, tanto in senso quotidiano, quanto letterario. Divenendo tra le primissime voci di quello che oggi definiremmo Southern Gothic. Ad uno spettatore meno attento appariranno come digressioni di poco conto e forse perfino sopra le righe e carenti di interesse. Eppure è proprio nel corso di quei frammenti, che Ethan Hawke ci dimostra d’essere realmente un autore eclettico, capace di maneggiare registri differenti tra loro, opposti addirittura, riuscendo però a legarli in una sinfonia sonora e visiva, che non stona mai, soddisfacendo appieno ciò che gli appassionati e semplici curiosi di Flannery O’Connor si aspetterebbero giustamente di trovare, in un lungometraggio – il primo! – a lei dedicato.
A scanso di equivoci, Wildcat racconta sì la bellezza della scrittura. Come evasione? No, come immersione nella realtà cruda e spietata delle nostre vite, ma ne racconta anche e soprattutto l’aspetto più drammatico, disperato e fragile. Quello dei turbamenti, della paura dell’abbandono e dell’effettiva solitudine, che conducono lentamente Flannery O’Connor alla macchina da scrivere, alle pagine bianche da riempire e alla rinuncia della propria vita. Ambientato quasi interamente nella casa di campagna nella quale la O’Connor si ritrova costretta a tornare poiché ammalata di lupus, un esilio dunque, il quarto lungometraggio di Ethan Hawke, non ci risparmia in alcun modo la sofferenza della sua giovane protagonista. Visibilmente incompresa, per questo scostante, spesso volutamente sgradevole, eppure dolce nella sua incapacità di affidarsi davvero all’emozione e all’amore, che effettivamente è presente, seppur velato e corrisposto solo in parte, tanto da Cal, l’unico uomo della sua vita, quanto dalla famiglia.
Ciò che sorprende di certo è il nodo attorno al quale tutto prende vita, la fede. Infatti nonostante il dolore, la profonda solitudine e il destino avverso, Flannery O’Connor non smette mai realmente di dialogare e cercare Dio, sfuggendogli però nella letteratura. Ecco dunque la fuga. Sarebbe d’accordo con noi? Forse no. Eppure la O’Connor fugge, dettaglio che Maya Hawke intercetta, estremizzandolo nella sua prova interpretativa profondamente fisica, che sfrutta il corpo non più come arma di seduzione, piuttosto come tranello, difetto e caduta, che si risolleva soltanto immaginandosi differente, nei racconti dunque, dove tutto è mutato e mutabile e dove il corpo può tornare ad essere forte, torbido e vitale.
Un film gelido e respingente, Wildcat, complice la fotografia di Steve Cosens poggiata su palette tipicamente invernali e gotiche, che non ci permettono in alcun modo di percepire calore. Non è questo che Hawke va cercando e non è questo che ci richiede. Lo cogliamo nel finale e così in quei solitari viaggi in treno che la O’Connor compie, osservando la neve fuori e ascoltando il freddo dentro, quello di un cuore che vorrebbe amare, pur consapevole di spegnersi presto. Prima d’essere amata, prima d’essere compresa. Come detto, Wildcat o lo si ama, o lo si odia. La sua visione è consigliata esclusivamente a chi non ha timore alcuno di perdersi tra realtà e immaginazione, universo letterario e cinematografico, in bilico tra mondi, metafore e pensieri. Sconsigliata invece a chi non ha mai avuto tempo e necessità di stringere un romanzo tra le mani. Ethan Hawke lo sa bene, non si comprende la letteratura – e così il cinema – se si è scelto di non incontrarla mai.
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