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La grazia di Holly Golightly, Hollywood e il mondo senza Audrey Hepburn

Il 20 gennaio 1993 se ne andava l’attrice che però, ripensata oggi, fu molto più di una semplice icona

MILANO – «La cosa terribile, Fred, tesoro, è che sono ancora Lula Mae. La Lula Mae che ruba uova di tacchino e che, appena può, scappa nella prateria. Solo che adesso lo chiamo avere le paturnie». L’ammissione arrivava più o meno a metà di Colazione da Tiffany, una confessione impietosa che, improvvisamente, rivelava allo spettatore una cosa fondamentale: nascosta dietro la sofisticata cittadina newyorchese Holly Golightly c’era in realtà una creatura selvatica, incapace poi di rimanere allineata, docile, prevedibile, a Manhattan come dentro un pollaio del Texas.

Audrey Hepburn
Audrey Hepburn sul set di Come rubare un milione di dollari…

A trentun anni dalla sua scomparsa, oggi di Audrey Hepburn resta molto dal punto di vista iconico – poster, citazioni, gadget, stile – ma poco sotto il profilo del contenuto, quasi fosse stata unicamente immagine, santino senza profondità da infilare nel portafoglio ed esibire al momento di indicare il proprio film preferito. Errore: Audrey Hepburn è stata molto di più, tanto che da un certo punto di vista – paradossalmente – proprio lei considerata simbolo di divismo era lontana anni luce dallo star system, cresciuta tra le patate e l’Olanda, il nazismo e la fame, idolatrata in vita, ma – come Holly Golightly – a proprio agio altrove, a Tolochenaz, a Roma, in famiglia o dentro una cucina.

Audrey Hepburn nei titoli di testa di Colazione da Tiffany. Era il 1961.

«Audrey mi fa volare, mi rende leggero. La guardo e sto bene», disse di lei Stanley Donen – che la diresse in tre film – cercando di afferrare l’inafferrabile, tentando di definire quello stato di grazia che l’attrice sembrava sempre incarnare alla perfezione, una preziosa fragilità che a Hollywood non trovò simili né prima né dopo. In realtà, a dispetto della celebrazione del mito, la Hepburn dominò nemmeno quindici anni della cultura pop del Novecento, da Vacanze romane, nel 1953, fino a Due per la strada nel 1967, prima del parziale ritiro e dei soli quattro film girati nei vent’anni seguenti con l’ultimo atto, non a caso, officiato nel 1989 da un altro costruttore di sogni come Steven Spielberg che in Always – Per sempre la dipinse come l’angelo che appariva a Richard Dreyfuss.

L’ultimo atto: Audrey Hepburn nel 1989 con Richard Dreyfuss in Always.

«Una creatura fatata che sa farsi credere a adorare solo per il fatto di esistere e di essere vista», scrisse negli anni Sessanta Abe Weiler sul New York Times nel tentativo di descrivere un’unicità che paralizzava chiunque se la trovasse davanti, fosse Richard Avedon o Fred Astaire, e lei fosse Sabrina, Arianna, Holly o la principessa Anna. Il suo stile non era ostentazione, la sua eleganza non era mai moda o atteggiamento, ma la semplice identità di una donna raffinata che sembrava di cristallo soffiato e che invece era sopravvissuta al nazismo mangiando pane e minestra. E allora il torto maggiore che possiamo fare oggi a Audrey Hepburn è proprio relegarla a un’immagine sacrale: era molto meglio, una figura complessa che si guardò bene dal farsi offuscare dalla fittizia maschera della diva.

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Qui sotto una featurette a tema Audrey Hepburn 

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