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Il grande vuoto | River Phoenix e quell’assenza che sembra non finire mai

A trent’anni dalla scomparsa, l’attore è ancora qui. Perché è così difficile da dimenticare?

River Phoenix. Morì a Los Angeles il 31 ottobre del 1993 a soli 23 anni.

MILANO – C’è stato un tempo in cui la condivisione non esisteva. O, perlomeno, era limitata a amici, parenti e compagni di classe, un ambito piuttosto ristretto che al massimo includeva quaranta persone (e già stiamo esagerando). In quel piccolo mondo antico – anni luce distante dal social sharing compulsivo di Instagram e TikTok – le passioni erano lente e si consumavano attraverso VHS e poche riviste scovate in edicola. Le informazioni si muovevano lente e arrivavano con giorni di ritardo. Dimenticate TMZ, le dirette social e i commenti in rete. Così, che River Phoenix se ne fosse andato per sempre, lo scoprimmo solo due giorni dopo quel maledetto 31 ottobre 1993 quando, in mezzo agli ultimi saluti a Fellini – scomparso lo stesso giorno – sui quotidiani piombò la notizia della sua morte davanti a un locale su Sunset Strip: il Viper Room.

Per la maggior parte dell’opinione pubblica fu solo l’ennesimo caso di divo ucciso dal successo, ennesimo teen idol da mettere in lista e farne un caso umano, da James Dean in su. Non per noi, non per chi lo aveva amato seduto in un cinema o davanti alla tv, perché per un’intera generazione quel giorno segnò la fine dell’età dell’innocenza. Eravamo cresciuti con River negli occhi, le sue fragilità erano le nostre, la sua voce la stessa di un pugno di ragazzini che ancora non avevano capito da che parte andava preso il mondo. No, River Phoenix per noi non era mai stato solo un attore, era un mito da chiamare per nome – e che nome, River – che le ragazze sognavano di avere come fidanzato e i ragazzi come miglior amico. I suoi film – da Stand by me fino a quel cult dimenticato che rimane Vivere in fuga – erano lezioni di vita, le sue videocassette pezzi di poesia a cui aggrapparsi in tempi di tempesta.

Non eravamo i soli, viste le parole dette in un’intervista da Leonardo DiCaprio qualche anno fa: «River? Un talento incredibile, il mio idolo. Riuscii quasi a incontrarlo ad una festa a Los Angeles, ma poi lui sparì nel nulla». Poi sarebbe arrivato il talento del fratello Joaquin e il suo Oscar, ennesima dimostrazionee che per avere un posto nell’Olimpo del cinema a River sarebbero bastati Belli e dannati e il solo Chris Chambers di Stand By Me (gli Stereophonics ci hanno pure scritto una canzone), personaggio più grande dello schermo, fragile e romantico, nervi tirati e cuore a pezzi, amico fragile dagli occhi tristi. Ma chi poteva immaginare che quel film contenesse anche il destino di River?. «Non ho mai più avuto amici come quelli che avevo a dodici anni», diceva alla fine Gordie, Wil Wheaton, che oggi ha 50 anni, è invecchiato bene e si divide tra TV e cinema.

Sono passati trent’anni da quella notte d’ottobre del 1993 e oggi la domanda – inevitabile – è cosa sarebbe successo se non fosse morto, se quella sera se ne fosse andato via dal Viper Room e il giorno dopo fosse arrivato puntuale – e ripulito – all’appuntamento con Terry Gilliam, che lo aspettò per due ore prima di sapere cos’era successo. Prima di capire che era tutto finito. Come sarebbe diventato River? Come l’amico Keanu Reeves – finito a fare John Wick 4 – oppure come Johnny Depp? Come DiCaprio, che rimane non a caso uno dei suoi più grandi fan assieme a James Franco, oppure come Ethan Hawke (altro vecchio amico, con cui girò Explorers) diviso tra libri e regia, e invecchiato benissimo?

Difficile dirlo, forse però, viste le sue ultime scelte – da Belli e dannati di Van Sant a Dark Blood di Sluizer – avrebbe bazzicato più il cinema indipendente che Hollywood, avrebbe proseguito lungo un percorso personale senza dubbio più originale che una serie di firme per una sfilza di blockbuster. Una cosa è certa: senza di lui dimenticate molti personaggi che ci hanno accompagnato poi nella cultura pop degli ultimi due decenni, da James Franco fino a Charlie Heaton di Stranger Things (di cui si parla per un biopic), dal talento del fratello Joaquin a Sam Rockwell fino ad un altro idolo dolente come Heath Ledger, tutti ribelli, irregolari, fuoriclasse impossibili da etichettare, gente che usava e usa il cinema come forma d’espressione, non per il conto in banca.


La cosa più ingiusta però che possiamo fare oggi, trent’anni dopo, è celebrarlo come un santino, venerarlo come un idolo del tempo passato, un’immagine da appendere sul muro come un poster dimenticato degli anni Novanta. Non lo merita: era molto di più. L’aspetto più surreale però è che ora River Phoenix è morto da più tempo di quanto è rimasto in vita (aveva 23 anni quando se ne andò) eppure ogni anno, ogni 23 agosto (il giorno del compleanno) o 31 ottobre, c’è una piccola grande comunità che non dimentica, che silenziosamente prosegue il culto, senza urlarlo troppo, senza dirlo. Un po’ come fosse un lutto privato. Quasi come se ciascuno di noi avesse avuto un suo personale rapporto con River. E chissà, forse è davvero così…

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