MILANO – Questa storia inizia con un regista poco noto, una sceneggiatura che nessuno vuole finanziare e due degli attori più in voga a inizio anni Novanta. Il regista è Gus Van Sant, le due facce sono quelle di Keanu Reeves e River Phoenix, la sceneggiatura è quella di Belli e dannati. Titolo originale: My Own Private Idaho, perché è in quel piccolo stato incastrato tra Oregon e Montana, tra Washington e Wyoming, e perché è il titolo di una canzone dei B-52’s amata da Van Sant. Ma partiamo dalla fine. 29 settembre 1991. Dopo essere stato presentato alla Mostra di Venezia (Coppa Volpi a Phoenix), il film di Van Sant esce nelle sale americane. È il delirio, osannato da una parte di pubblico – quella più giovane – condannato dall’altra. Ovvio: la storia di due ragazzi di strada che si prostituiscono non può mettere d’accordo tutti. Una cosa, però, tutti hanno capito. Quello sfrontato pezzo di cinema era già molti film racchiusi in uno.
Da come iniziò, nessuno ci avrebbe scommesso un soldo. Inizialmente lo script contava di solo venticinque pagine, alla stesura finale arrivò a 73. Gus Van Sant iniziò a scriverla a diciotto anni, nel 1970, partendo da Città di notte di John Rechy. Contava di due parti, ispirandosi alla tecnica a tagli di Burroughs: Modern Days seguiva la storia di Mike (Phoenix), quella di Scott (Reeves) era una rivisitazione dell’Enrico IV di Shakespeare. Qualcosa però non funzionò e ci mise vent’anni per riscriverla. Osando su tutta la linea, la storia divenne una modernizzazione delle opere shakespeariane, quelle due parti dell’Enrico IV e l’Enrico V che lui aveva sempre letto come una storia di strada. L’amico di strada Michael Parker divenne l’ispirazione per Mike, Scott divenne il ricco e ribelle compagno di avventure. La storia era controversa, Van Sant lo sapeva e non si stupì più di tanto quando, una dopo l’altra, le produzioni lo rifiutarono. Si convinse anche ad abbassare i toni da Shakespeare quando persino un produttore della 20th Century Fox, grande amante dello scrittore, li reputò troppo alti.
Sceneggiatura approvata, telecamere in mano, restava un problema: i due protagonisti. Chi si sarebbe esposto? La spinta arrivò quando salirono a bordo due idoli, Keanu Reeves e River Phoenix. Avevano già lavorato a Ti amerò… fino ad ammazzarti di Lawrence Kasdan, e funzionavano. River, che portava nel cuore il film e aveva deciso di metterci del suo, aveva avuto un’infanzia difficile, conosceva la strada e le sue sensazioni, e trascinò Keanu con lui. La strada. Quella che accoglie Mike e Scott come figli perduti, diretta discendente di quella della Beat Generation. Kerouac e Ginsberg. La strada che racconta della ricerca di libertà e di un posto nel mondo, senza preoccuparsi di dove si sta andando. Quando Scott scappa di casa e la cameriera gli chiede dove sarebbe andato, la sua semplice risposta racchiude tutto: «Wherever, whatever, have a nice day». Pensate che tutto questo sia bastato a fare di Belli e dannati il cult che conosciamo oggi? No, niente di ciò che è sarebbe stato possibile senza River Phoenix.
Uno dei filmati registrati a 16-mm aveva voluto girarlo lui. Amatorialmente, però, aveva sbagliato a caricare la pellicola, e il risultato fu una striatura bianca, un glitch tecnico che non faceva che aumentare la sua aura angelica. Il Mike scritto da Van Sant era apatico, evasivo e, soprattutto, etero. River lo fece diventare l’opposto. Fu lui a insistere che fosse gay e innamorato di Scott, fu lui a renderlo sensibile e tormentato. La scena del falò? Non esisteva. L’ha scritta lui. C’è tanto di River in questo film, tanto che ha aggiunto e a cui Gus non era riuscito ad arrivare. Lo ha detto lui stesso, ci ha lasciato dentro un pezzo della sua anima, e ne era orgoglioso. Belli e dannati, nelle sue decine di sottotesti, lo ha trasformato prima di tutto in una meditazione sul desiderio tra due uomini, fatto in un tempo in cui Hollywood non sapeva che farci. Keanu e River hanno aperto la strada ad Hollywood perché i grandi nomi del cinema recitassero in film omosessuali. Col senno di poi, senza di loro non avremmo mai avuto Heath Ledger e Jake Gyllenhaal in Brokeback Mountain.
Pervertiti, criminali, depravati: erano le accuse lanciate da detrattori e conservatori agli omosessuali, nascosti dietro la paura di qualcosa diverso dalla loro normalità. Quando il Movimento per la Liberazione Gay lanciò il grido: «Pervertiti del mondo, unitevi!», fu il New Queer Cinema a rispondere alla chiamata. E Phoenix si trovava lì, al momento giusto. Ci aveva visto lungo, lui, che trent’anni fa parlava di ciò per cui oggi ci si sta battendo. «Penso che sia importante per la comunità gay avere personaggi che non rappresentano altro che persone… Penso sia parte di un’onda che creerà un precedente di qualche tipo, in modo da non avere più bisogno di un’etichetta». Aveva capito verso che direzione le cose iniziavano a muoversi. «Il fatto che venga etichettato come un film gay mostra lo stress della nostra società. La gente non sembra etichettare un film con il sesso etero. Tra dieci anni non sarà un film gay, sarà un buon film». Moderno come pochi.
Corpi allestiti ad emulare la Pietà di Michelangelo e Orfeo che piange Euridice, la malinconia di una commedia e il fascino della tragedia, i paesaggi della pianura americana e i monumenti di Roma (e quella scena a piazza del Popolo). C’è un po’ di tutto nel film che ha consacrato Gus Van Sant. È diventato uno dei capisaldi del cinema queer, testimone di un’epoca e di una gioventù che però continuano a influenzarci. «It’s not where you go, it’s how you get there». È sempre il viaggio che conta, alla fine. E il viaggio on the road di Belli e dannati è uno di quelli che continuano anche attraverso le strade del tempo, anche a decenni di distanza, anche senza parole. A volte bastano silenzi che dicono tutto, come quelli di Mike e Scott. Rimane il suono di quella moto per le strade dell’America, lo scoppiettare del falò nell’arida natura dell’Idaho, la passione nella stanza di un motel e il grido di libertà di una generazione decisa a non farsi dire da altri cos’ era e dove stava andando. Tutto il resto è silenzio.
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