MILANO – Formalista, estetizzante e di maniera? Forse. Ma anche profondo, personale, sincero. Roma di Alfonso Cuarón è ancora oggi – a sette anni dall’uscita, era alla Mostra di Venezia nel 2018 – un film rilevante, senza dubbio, merito di una potenza visiva straordinaria, di un bianco e nero digitale abbagliante e splendente, di una regia sinuosa che seduce e fa immergere nella quotidianità di una famiglia borghese di Città del Messico. Siamo nel 1970 e la storia ci viene raccontata attraverso corpo e anima della giovane domestica Cleodegaria Gutiérrez detta Cleo, interpretata dalla magistrale non attrice Yalitza Aparicio (che poi ha fatto poco altro), che, dopo le prime esperienze sessuali, viene lasciata dal fidanzato nello momento in cui la padrona di casa, Sofia (Marina de Tavira) è abbandonata dal marito che parte per due settimane per una conferenza in Québec, ma non tornerà.

Ma Roma non è solo un affresco sontuoso su un preciso momento storico anche perché sarebbe decisamente riduttivo limitarsi al contrasto sociale di un Messico in cui classe ed etnia si intrecciano in maniera inaspettata e perversa. Il film – che prende il titolo dal quartiere Colonia Roma della città – è soprattutto il ritratto di due donne, Cleo e Sofia, lontane per posizione gerarchica e vicine per destino, che si sorreggono a vicenda per non sprofondare nel caos di un Paese in cui si consumano le violenze delle milizie appoggiate dal Governo nei confronti dei manifestanti del movimento studentesco. Quello che vediamo nella pellicola è infatti un evento realmente accaduto, è il massacro del Corpus Christi, detto El Halconazo, il 10 giugno 1971, quando un gruppo paramilitare uccise oltre cento persone.

Il cuore di un’opera talmente impeccabile da permettersi qualche lungaggine di troppo e qualche leziosismo tecnico appartiene proprio alle protagoniste, due mamme, una per sangue e l’altra per necessità, e a quei bambini insieme a cui poter ripartire, ricostruire una famiglia, affrontare la crescita, i terremoti, gli incidenti, il mare mosso. E, in modo più o meno consapevole, la vita politica, la “cosa pubblica”. Per Cuarón, Roma è il film sulla sua memoria, sulle persone che lo hanno cresciuto, sul mistero dell’amore che oltrepassa spazio, ricordo e tempo. Un urgente, lussuoso ritorno alle radici da parte del regista messicano, che con la maestria dell’autore internazionale confeziona uno struggente omaggio alle libertà sconfinata del cinema di prendersi i suoi ritmi, le sue pause, sfidando convenzioni e sentimentalismi.
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