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TOP CORN | The Oak Room e la potenza della scrittura cinematografica

Personaggi, dettagli, luoghi: nel film di Cody Calahan è tutto incatenato. In anteprima al #TFF38

Uno dei dettagli di The Oak Room
Uno dei dettagli di The Oak Room

ROMA – Guardando The Oak Room di Cody Calahan, ragioniamo su quanto la forza di un’idea, supportata da una sceneggiatura di ferro, sia la vera (e unica?) unità di misura per determinare la riuscita di un film. Qui, infatti, tutto è estremizzato: due location (o forse è solo una?), una manciata di interpreti e qualche controcampo. Il resto, come detto, lo fa lo script di Peter Genoway, che ci porta dritti dritti nel bel mezzo di una gelida notte canadese nel quale, ogni cosa, pare essere concatenata all’altra. Così, mentre fuori imperversa una bufera di neve, ecco che all’interno del bar di Paul (Peter Outerbridge) entra un ragazzo, Steve (R.J. Mitte). I due si conoscono e, sembra, ci sia un certo astio, tra debiti e vecchi rancori.

The Oak Room
Il barista Paul, interpretato da Peter Outerbridge

Paul sta chiudendo bottega, il vento ulula e vorrebbe Steve immediatamente fuori dal suo bar. Almeno fin quando il ragazzo non comincia a raccontargli di uno strano caso avvenuto in un altro locale, l’Oak Room, per l’appunto. Oltre non vi sveliamo, ma sappiate che nel film, presentato al 38° Torino Film Festival, ogni cosa è saldamente incatenata. Insomma, dovrete prestare la massima attenzione: particolari, dialoghi, rimandi temporali, precisi luoghi. Come una matriosca, il film di Cody Calahan, interseca più storie e più particolari, giocando con il senso stesso delle parole. I pochi personaggi, l’ambientazione, i tratti onirici, sono le colonne della vicenda che, senza mostrare troppo, catalizzano l’attenzione degli spettatori, letteralmente incuriositi dalle dinamiche che, poco alla volta, vengono rivelate.

The Oak Room
La bottiglia di birra, uno dei dettagli del film

Infatti, come fosse un nervo scoperto, The Oak Room inizia a pulsare quando la vicenda entra nel vivo; nel momento esatto in cui squilla il telefono del bar, capiamo che le quattro figure, su cui ruota il film, sono strettamente legate tra esse. Così, l’intera sceneggiatura potrebbe essere considerata come un enorme MacGuffin, uno stupefacente espediente per raccontare in modo originale una vicenda di per sé lineare, enfatizzando in questo modo – come detto – la semplicità del copione di Genoway. Ed è tutta qui la differenza sostanziale: The Oak Room, in un’ora e mezza, dimostra che nessun artificio, né compiacimenti registici, riescono a tener testa ad una grande storia, narrata proprio come si farebbe appoggiati ad un bancone di un bar.

Qui il trailer originale di The Oak Room:

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