ROMA – «Steven Spielberg telefona a casa». È il titolo della recensione che il New York Times, citando E.T., ha dedicato a The Fabelmans, trentaquattresimo film del regista che probabilmente più di tutti ha plasmato l’immaginario collettivo del tardo Novecento, infondendolo di elementi personali nei quali, negli ultimi quarant’anni, ci siamo poi specchiati anche noi. Ma con The Fabelmans (in sala dal 22 dicembre), Spielberg fa un ulteriore passo in avanti e ci porta indietro nel tempo, alla sua infanzia e adolescenza. Un film immaginato già dai primissimi anni Novanta ma troppo personale, troppo intimo per poter essere realizzato. Meglio allora continuare a sfornare classici istantanei come come Jurassic Park o Salvate il Soldato Ryan prima di trovare il coraggio di guardarsi indietro e raccontare come tutto è iniziato…
Se la sua (meravigliosa) versione di West Side Story era dedicata alla memoria del padre Arnold che, nel 1957, portò a casa una copia del vinile della colonna sonora del musical realizzata da Leonard Bernstein facendolo innamorare per sempre dell’opera di Arthur Laurents, The Fabelmans è dedicato a sua madre Leah. E proprio attraverso la relazione tra i suoi genitori ed il loro successivo divorzio che The Fabelmans prende vita. Inizia tutto una sera di dicembre del 1952. Sammy Fabelman (alter ego del regista) ha sei anni ed è terrorizzato dall’idea di andare al cinema. Da un lato il padre Burt (Paul Dano), ingegnere informatico, gli spiega in dettaglio il processo tecnico del film, dall’altro sua madre Mitzi (Michelle Williams), pianista classica che ha lasciato il palco per crescere i figli, gli assicura che «i film sono come sogni che non dimenticherai mai».
Due visioni agli antipodi ma complementari. Scienza e poesia, tecnica e passione. E a ben vedere dalla sua filmografia, Steven Spielberg quella conversazione non l’hai mai dimenticata. Così come non ha mai dimenticato quel primo film visto al buio di una sala: Il più grande spettacolo del mondo di Cecil B. DeMille. O meglio, l’incidente ferroviario che si vede nel film capace di colpirlo al punto tale da volerlo replicare all’infinito in una versione casalinga resa possibile da un trenino giocattolo e la cinepresa del padre. Da lì Spielberg non ha mai smesso di intrecciare sogno e realtà e non ha mai smesso di rifugiarsi nel cinema per guarire le sue ferite.
Quelle di una famiglia che cadeva a pezzi mentre lui, adolescente ed impotente (interpretato da un grande Gabriel LaBelle), vedeva crollare- letteralmente – davanti ai suoi occhi il mondo circostante apparentemente idilliaco trovando riparo in un altro fatto di celluloide. Scritto insieme al collaboratore di lunga data Tony Kushner, The Fabelmans sembra a tratti un sogno. I suoi personaggi sono reali eppure, nel modo in cui Spielberg li filma e Janusz Kamiński li illumina, molti passaggi hanno un sapore onirico. E in questo il film di Spielberg ricorda Armageddon Time di James Gray che, con toni e ambientazioni differenti, racconta una storia simile. Quella di un uomo adulto (il regista) che rievoca la sua infanzia attraverso un giovane protagonista che scopre l’arte, osteggiata e ridotta ad un hobby dai più, mentre rievoca i volti e le storie che l’hanno formato. Un sogno ad occhi aperti. Un lungo ricordo in movimento.
Profondamente ironico e commovente, The Fabelmans sottolinea il potere che ha l’arte di guarire e confortare mentre mostra la distanza sempre più netta ed insanabile tra i suoi genitori e l’antisemitismo in seno ad un’America post Seconda Guerra Mondiale. I suoi interpreti sono sublimi alle prese con ruoli complessi carichi di responsabilità – Michelle Williams e Paul Dano hanno già in pugno una nomination agli Oscar – mentre incarnano una storia vera vista con gli occhi di un figlio che solo oltre cinquant’anni dopo il divorzio dei suoi genitori è riuscito a mostrare la sua versione. Ovviamente cinematografica. E con «l’orizzonte in alto» come John Ford insegna…
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Qui sotto potete vedere il trailer di The Fabelmans:
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