MILANO – Come già vi avevamo raccontato nella nostra recensione (qui) e nel nostro incontro a Roma con il regista Jeff Nichols e il protagonista Austin Butler (qui), dopo una lunga attesa qualche settimana fa è arrivato nei cinema anche in Italia The Bikeriders, film tratto dal libro fotografico di Danny Lyon pubblicato per la prima volta nel 1968. Nel volume si raccontava la storia della nascita e dei primi anni degli Outlaw MC (che nel film diventano i Vandals), motoclub di Chicago ancora oggi presente in molte parti del mondo. Il film – che ha avuto poca fortuna al botteghino, ma è destinato a diventare un cult assoluto – ha un grande impatto visivo grazie anche alla ricchezza di citazioni tratte proprio dalle immagini dello splendido libro di Lyon. La più celebre? Quella del motociclista che corre in moto su un ponte con la testa girata indietro, con i colori degli Outlaw sulla schiena e ciuffo al vento. Ma – evidentemente – non c’è solo questo, ma molto di più nascosto tra i fotogrammi delle due ore di The Bikeriders.

Oltre ad essere un evidente tributo al volume, il film racconta l’epoca d’oro del motociclismo americano attraverso i personaggi interpretati da Tom Hardy, ennesima interpretazione di altissimo livello – degna del Motorcycle Boy di Mickey Rourke in Rusty Il Selvaggio – e da Austin Butler, destinato dopo Elvis a prestare ancora il volto per rappresentare quel periodo americano. Il racconto copre l’epoca d’oro dei club motociclistici fuorilegge (MC o Motorcycle Club) dalla fine degli anni Cinquanta ai primi anni Settanta, quando l’America e il suo sogno di libertà si schiantarono contro la guerra in Vietnam. Esistono molti film e serie dedicati all’argomento, ma The Bikeriders per la prima volta rappresenta tutti i momenti fondativi di una sottocultura nata dallo spirito di ribellione di alcuni ragazzi tornati dalla Seconda Guerra Mondiale. Una sottocultura che ancora oggi spinge un numero enorme di persone ad andare su moto personalizzate e vestirsi come quei ventenni di settant’anni fa, pur di provare il brivido semplice, selvatico di correre in moto insieme alle persone a cui si è legati.

Un brivido difficile però da spiegare a chi non ne è istintivamente attratto. Ed è (proprio) per questo che The Bikeriders è un film ferocemente vero, il racconto di giovani bruciati dalla fame di libertà che rimangono fulminati dalla visione de Il Selvaggio con Marlon Brando, film del 1954 dedicato ad una vicenda del 1947 nota come i fatti di Hollister, evento di cronaca secondaria con qualche giorno di baldoria in un paese rurale da parte di alcune centinaia di motociclisti trasformato poi da un magazine come Life in un fenomeno di sovversione sociale. Il racconto della rivista trasformò quei giorni – in cui davvero non accadde nulla di speciale – in un sabba durante cui i nuovi nemici della società, i motociclisti fuorilegge appunto, si sarebbero dati alle peggiori depravazioni. Life prima e Il Selvaggio poi scatenarono l’interesse verso questo stile di vita da parte di tanti giovani che non si riconoscevano nei valori della società bigotta americana di quegli anni.

The Bikeriders racconta quel primo nucleo di giovani che trovarono un senso di comunità intorno a questo stile di vita e alle sue regole auto-imposte. Giovani della working class che si aggregavano per rispondere al bisogno di trovare un posto nel mondo, modificando le moto su cui correvano in gruppo indossando giubbotti Perfecto (il chiodo), gli stivali walker e i capelli lunghi tenuti con la brillantina. Il film ricostruisce in modo molto dettagliato anche il passaggio stilistico tra la prima generazione di biker, i fondatori del club, con Harley personalizzate con uno stile molto essenziale (stile bobber) e la generazione successiva, che invece portava barba/capelli lunghi di ispirazione hippie e guidavano chopper, ovvero moto con forcelle lunghe e piccoli serbatoi. Un passaggio rappresentato con grande attenzione estetica nel film anche grazie al personaggio Funny Sonny, che si rifà a Terry the Trump, membro originale degli Hell’s Angels Okland, passato alla storia per il suo stile hippie e l’attitudine estrema da fuorilegge.

Un altro elemento fondante ben rappresentato erano i run, ovvero gli spostamenti in moto di tutti i membri del club per organizzare picnic nei camping che finivano in tremende sbronze collettive. Erano feste a base principalmente di birra ma, con il passare degli anni, le nuove generazioni portarono con loro le droghe pesanti. Il Vietnam fu lo spartiacque, la nuova generazione di motociclisti che si avvicinò al mondo dei club MC portò dal fronte l’eroina e una violenza più organizzata. Era un mondo selvaggio, così come erano le moto dell’epoca: bellissimo e pericoloso. Un mondo fatto di giovani che decidevano di vivere secondo le proprie regole e non secondo quelle della società, correndo insieme liberi su moto rilavorate con le proprie mani fino a renderle un linguaggio ed un’opera d’arte. È un film con un sapore nostalgico per l’epoca che racconta. Perché la libertà è uno spazio vuoto da immaginare, ma oggi non c’è più un “fuori”.

The Bikeriders racconta uno stile di vita estremo in un’epoca in cui esistevano ancora quegli spazi vuoti, quando si poteva decidere di vivere secondo le regole della società, ma anche di vivere fuori. Inimmaginabile la nascita di uno stile di vita così oggi, dove ogni cosa e il suo contrario hanno un posto codificato dentro quell’enorme tubo digerente che è la società, in cui tutto fa business. Un film da vedere e rivedere, destinato a finire a fianco di classici come Easy Rider, Il selvaggio e il meno citato I selvaggi di Roger Corman.
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