ROMA – Cinematograficamente parlando tre ore sono tante, e se non si è bravi a maneggiare il tempo c’è il forte rischio di rimanere invischiati in un pantano. E questo vale sia per l’autore che per il pubblico. Entrambi i fattori sono sulla stessa linea: da un lato il regista, burattinaio e creatore, dall’altro lo spettatore, che nel buio della sala cerca di compensare (e alimentare) i propri sogni. In mezzo, appunto, c’è l’orologio, che scorre inesorabile e con cui bisogna fare i conti. Dunque, restando in tema, e citando quell’Enigmista di uno straordinario Paul Dano (che vale da solo il prezzo del biglietto), rispondiamo al primo quesito che, forse, vi state ponendo: nelle tre ore di The Batman non c’è nulla di sprecato, e ogni minuto è essenziale – visivamente e narrativamente. Del resto alla regia c’è Matt Reeves (riscoprite The War – Il pianeta delle scimmie, tragicamente sottovalutato) che ha una così marcata idea di cinema da prendersi tutto lo spazio e il tempo necessario, per strutturare la pellicola come fosse un noir. A metà tra Chinatown, Strade Violente o Seven.
Come Reeves, anche noi elaborando l’opinione ci siamo presi del tempo, e vista l’importanza del titolo non vogliamo risparmiare i caratteri, provando a raccontarvi di quanto The Batman, al contrario di ciò che si pensa e si vede, è un’opera totalmente incentrata sulla luce. Anzi, sulla ricerca costante di “una” luce. L’Uomo Pipistrello, come gli stessi Bob Kane e Bill Finger lo hanno concettualizzato, è l’ombra, l’oscurità, la notte, l’inquietudine della giustizia, che non risparmia quella violenza utile a perpetuare il bene. Insomma, Batman e la faccia pulita di Bruce Wayne sono l’archetipo della contraddizione umana, mistificata sotto le spoglie di una maschera nera che copre il dramma di un orfano miliardario. Reeves lo sa (e lo sa bene anche il co-sceneggiatore Peter Craig), e quindi il peso, secondo dopo secondo, si bilancia attorno alla silhouette iconica del Cavaliere Oscuro, scandendo soavemente e drammaticamente la cadenza e il ritmo cinematografico per esaltarne di conseguenza la sua impressionante potenza visiva.
Per farlo, non senza rischi, Reeves ha voluto come centro di gravità Robert Pattinson che – e qui arriviamo alla vostra seconda domanda – non sbaglia nulla, regalandosi (e regalandoci) il ruolo della vita (anche se, contestualmente, Michael Keaton è irraggiungibile nel ruolo). Un Batman rabbioso e irregolare. Non solo, grazie a Bruce Wayne, Pattinson torna a fare pace con i fantasmi (anzi, i vampiri) del passato divenendo l’essenza tormentata e ambigua che non può non riflettere le terribili paure di un mondo in fiamme; un ruolo che gli vale una carriera e, di più, lo affianca ad un’icona universale. Senza timore reverenziale, Reeves sceglie di edificare The Batman in simmetria con due co-protagonisti che risultano vitali alla funzione filmica, e che di rimbalzo ci fanno entrare nel vivo di una detective story dai risvolti glaciali, senza voler obbligatoriamente inseguire l’emozione forsennata. Per l’appunto, la messa in scena si poggia sull’incessante musica di Michael Giacchino, che detta letteralmente il ritmo alle azioni, e in particolar modo si poggia sulla centralità di Gotham City. Sporca, cattiva, perversa, corrotta, fradicia di pioggia.
Il palcoscenico politico e sociale di Batman è una sorta di realtà senza leggi, in cui il rinnovamento degli ideali, asserisce l’Enigmista, altro non è che una grossa menzogna che infanga la verità e, come detto, la luce. Reeves sembra cosciente di quanto la sua Gotham City sia la migliore di tutte (e lo è, eccome se lo è), facendo implodere la storyline attorno al suo fascino e alla sua brutalità. L’Enigmista, e da qui parte The Batman, uccide il Sindaco uscente in piena campagna elettorale, innescando una reazione a catena che prevede l’eliminazione di influenti personalità della città, scoprendone i loro aberranti segreti. L’Enigmista, in questo senso, vuole “lavare” Gotham: è la rivoluzione popolare portata all’estremo, esasperata dalle bugie e dalle ingiustizie di un potere che veste gli abiti sartoriali di Carmine Falcone alias John Turturro o del Pinguino di Colin Farrell.
A guardare bene – e lo dimostra la meravigliosa sequenza nell’Arkham Asylum – Batman e l’Enigmista sono la stessa cosa: entrambi difendo la verità, ed entrambi ci spingono alle scottanti domande: quanto è sottile la linea che divide il giusto dallo sbagliato? Cosa può fare un buon uomo nella giusta situazione? Ovviamente non c’è risposta che tenga, eppure The Batman nella sua coraggiosa riscrittura del genere fumettistico (come con il Joker di Todd Phillips, l’unica via percorribile è questa, lasciando stare i bislacchi tentativi di emulare l’empatia dei Marvel Studios) non ha paura di rendersi libero dagli schemi, concependo il cinema come mezzo espressivo di una realtà buia e svuotata dalla misericordia, lasciando l’emotività fuori dall’inquadratura.
Per questo motivo, nei 176 minuti, Matt Reeves aiutato dalla fotografia di Greig Faser, dipinge un quadro nerissimo nel quale i punti luce si soffermano sul rosso e sull’ocra, per poi far risplendere la luce dell’alba e della speranza, rappresentati metaforicamente dagli altri due protagonisti: Selina Kyle / Catwoman (Zoë Kravitz, perfetta e dolente) e James Gordon (Jeffrey Wright). Perché nemmeno per un momento, ci dice il film, si deve cedere alla paura; mai per un istante bisogna accettare il male. I bagliore della giustizia è lì, ad indicare la rotta nel bel mezzo delle tenebre. Per raggiungere quella luce bisogna incanalare la rabbia e il dramma, facendone strumenti preziosi da mettere a disposizione di un bene comune. Come Bruce Wayne, che non si lascia sopraffare dall’emozionalità e dall’istinto rabbioso, ma anzi prende coscienza che anche la (sua) notte non può durare per sempre. Ecco cos’è The Batman, un’esperienza più che un ottimo film.
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