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Steven Spielberg, Trump e l’America: la lezione politica di The Post

L’etica e il dovere morale di fare cinema per un regista che non sa filmare solo sogni, ma anche incubi

Illustrazione: Iku4 per Shutterstock.

«Io non twitto, giro». Basterebbe questa semplice frase, pronunciata al Times, per capire la profonda etica del lavoro di Steven Spielberg, un uomo che dal 1971 – anno del primo film, Duel – a oggi, si è sempre messo in discussione, non si è mai fermato né accontentato, nemmeno dopo che gli Oscar nel 1994, per Schindler’s list, gli restituirono quello che meritava da dieci anni (sì, Il colore viola). The Post però è un’altra storia, merita un capitolo a parte, non solo perché Spielberg lo ha girato in meno di nove mesi (e solitamente ne impiega almeno quattordici), ma perché non doveva proprio essere un suo film e quella sceneggiatura – firmata da una ragazza di trentuno anni, Liz Hannah, e da Josh Singer, non a caso già su Il caso Spotlight – era destinata a un altro regista.

Steven Spielberg a Washington sul set di The Post

Poi è successo qualcosa, anzi, qualcuno: Donald Trump si è seduto alla Casa Bianca, ha cominciato a twittare senza posa e attaccare la stampa, in primis il New York Times, con frasi surreali e spregiudicate come: «Horrendously inaccurate and dishonest report». Improvvisamente, quella vecchia storia letta nello script di The Post, con i vertici del Washington Post costretti a scoprire il prezzo della libertà di stampa (la sicurezza del Paese e i loro posti di lavoro), diventò attuale, importante, un faro nella nebbia delle fake news e della giungla digitale del tutti contro tutti. A quel punto Spielberg – da questo punto di vista molto differente dai compari degli anni Settanta, Lucas, Coppola e Scorsese – ha deciso che era sua responsabilità girare The Post.

Spielberg con Tom Hanks e Meryl Streep sul set di The Post

«E ho scoperto che questo è il mio secondo film femminista», ha spiegato, «non ne ho fatti molti e quello precedente era del 1985: Il colore viola». Da Whoopi Goldberg a Meryl Streep, dai diritti degli afroamericani alla libertà di stampa, un viaggio in cui Spielberg ha sempre dimostrato che il cinema può essere entertainment puro quanto mezzo poderoso per scuotere coscienze e cuori. Per questo oggi, mentre gli altri enfants terribles che negli anni Settanta cambiarono faccia a Hollywood si sono defilati (Lucas e Coppola su tutti), Spielberg è da ammirare perché a settantuno anni non si è messo a produrre vino o a contare dollari a Malibu, ma è rimasto lo stesso appassionato ragazzino che negli anni Cinquanta amava il cinema più della sua vita e che dai cineasti che lo hanno preceduto – da Elia Kazan a Sydney Pollack – ha imparato che il cinema non è solo divertimento, ma anche responsabilità. Ha semplicemente capito che, quando scende la notte, a volte si abbracciano sogni, altre volte invece si affrontano incubi. E vanno raccontati entrambi.

Da Il colore viola a The Post: (ri)scoprite su CHILI la filmografia di Steven Spielberg

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