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Schindler’s List | Perché il capolavoro di Steven Spielberg è ancora necessario

La storia, la memoria, il ricordo, il futuro: perché Schindler’s List rimane una visione fondamentale

Schindler's List, una scena del film.
Steven Spielberg, Ben Kingsley e Liam Neeson sul set di Schindler's List.

ROMA – «Sì, fui proprio io. Fui io ad insistere perché Steven girasse Jurassic Park prima di cominciare la produzione di Schindler’s List. Perché? Perché sapevo bene che dopo quell’esperienza la sua filmografia non sarebbe stata più la stessa…». A ricordarlo, a metà anni Novanta, fu Kathleen Kennedy, storica produttrice hollywoodiana nonché il nome dietro alcuni dei più grandi successi degli ultimi quarant’anni, da Guerre Stellari a Ritorno al Futuro. La Kennedy non avrebbe potuto essere più lungimirante, perché dopo il 1993, per Spielberg cambiò tutto e il regista approdò a una maturità stilistica tale da aprirsi ad una doppia carriera, muovendosi tra pellicole storiche – da Salvate il soldato Ryan a Munich, da Lincoln a Il ponte delle spie – e il suo regno indiscusso della magia, dell’avventura e del gioco – vedi Minority Report, Prova a Prendermi, Le avventure di Tintin.

Spielberg sul set di Schindler’s List, in Polonia, con la bambina dal cappotto rosso.

Di fatto, però, quello per arrivare a Schindler’s List fu un lungo e dolente percorso per Spielberg che, ad un certo punto, stava per abbandonare la produzione del film, lasciando spazio a Martin Scorsese o addirittura a Billy Wilder, ai tempi ottantacinquenne. I due declinarono però l’invito, seguiti da Roman Polański che aveva già in testa Il pianista. Dunque, dieci anni dopo aver conosciuto l’impresa umana e storica di Oskar Schindler e dopo aver letteralmente cambiato il mondo dell’entertainment, per Spielberg non c’erano più alibi: era arrivato il momento di andare oltre, riflettendo su quel tema che da sempre lo tormentava. Decise di affrontarlo con l’unica voce possibile: quella della verità.

Schindler's List
Un’altra immagine di Spielberg sul set, a Cracovia.

Rivisto oggi l’Olocausto di Spielberg è cinematografico perché tale è la concezione che il regista ha della vita. Non per questo però è meno reale di quanto si fosse prefissato, perché applicò il proprio talento al passato con un’umiltà tangibile in ogni inquadratura. Di qui la scelta di annullare il colore, per affondare le proprie motivazioni in qualcosa di molto più indicibile e, quindi, reale. «L’Olocausto fu vita senza luce», ricordò il regista, «e per me il simbolo della vita è il colore. Per questo doveva esserci il bianco e nero». E nella messinscena piena di ombre di Schindler’s List, segnata dalla colonna sonora di John Williams,  la partecipazione è palpabile, lo sguardo è sempre contaminato e racconta allo spettatore il coraggio di un uomo ma anche l’inquietudine che ha segnato la sua esistenza.

Dopo l’uscita, gli incassi e gli applausi, sarebbero arrivati i sette Oscar, tra cui quelli per film e regia, ma quelli fanno parte della storia personale di Spielberg non della Storia del Novecento, non di quell’orrore che qui viene rievocato senza edulcorare nulla. E oggi forse il residuo più evocativo che l’arte ci ha restituito della Shoah è proprio quel simbolo, quel cappotto rosso perso tra la folla di una bambina che non crescerà…

 

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