MILANO – Se Allen Ginsberg aveva cantato la Beat Generation, molto (molto) prima che arrivasse The Whale, Darren Aronofsky, con la sua seconda opera cantò (eufemismo) lo smarrimento di un’altra generazione, ovvero quella della gioventù tra gli anni Novanta e i primi anni Duemila. Requiem for a Dream, a oltre vent’anni dalla sua uscita – il 6 ottobre 2000 – è oggi ancora un monumento del cinema americano di inizio millennio. Perché? Perché è un viaggio nella psiche umana attraverso la dipendenza dei suoi quattro protagonisti: Harry, Marion e Tyrone – immersi nel tunnel dell’eroina – Sara assuefatta dai programmi televisivi, interpretati rispettivamente da quattro magnifiche facce come quelle di Jared Leto, Jennifer Connelly, Marlon Wayans e Ellen Burstyn, volti che rappresentano quello che l’inizio del secolo tentava disperatamente di superare. Droga e televisione.
Nei decenni precedenti l’eroina aveva messo fine alle vite di tante personalità di spicco, per non parlare di milioni di giovani ragazzi e ragazze che erano caduti nelle sue maglie. La televisione, invece, era ed è una droga tutta moderna, nuovo baluardo di una società di consumatori seriali.
Ma che cosa rimane, allora, ventiquattro anni dopo, di Requiem for a Dream? Rimangono la sua morsa psicologica e la sua potenza emotiva che colpiscono ancora come se lo si vedesse per la prima volta. Rimane la visione realistica e cruda di quelli che sono gli effetti della droga. Rimane l’immagine di una società frammentata e allo sbaraglio, quella solitudine e quello smarrimento che avevamo già visto un anno prima in Matrix. L’essere umano fondamentalmente solo con sé stesso, immerso in una routine dalla quale non c’è scampo. Molto prima dei social.
Aronofsky riuscì a portare sullo schermo il dramma di una generazione che non sapeva trovare un sogno, uno scopo, un fine a cui tendere, e allo stesso tempo di una società sottomessa, incapace di porre un freno al bisogno di consumare, di passare sempre ad un nuovo prodotto, al nuovo programma, alla nuova pillola da digerire (e ancora, al nuovo social). Si riassume tutto in un dito che conta le pasticche, in un pacchetto di polvere bianca nascosto furtivamente, in una pupilla di un occhio azzurro che si dilata all’improvviso. Requiem for a Dream è il grido di un regista, diventato uno fra i più rappresentativi della cinematografia, che estremizza e allo stesso tempo descrive la sua realtà, che ammonisce e allo stesso tempo infierisce sui suoi simili creando un senso di disillusione e fantasia tremendi, qualcosa della stessa materia di cui sono fatti gli incubi.
Un risultato quasi viscerale che non si limita a mostrare gli effetti della droga, ma crea un senso di vero e proprio disgusto fino alla fine, che sentiamo nello stomaco come se lo stessimo vivendo in prima persona. È più un’esperienza che un vero e proprio film, e forse uno degli aspetti più incredibili è l’estremo controllo che Aronofsky ha su tutta questa pazzia. È un dramma, un coming of age in negativo, ma è terribile e snervante più di un horror. Requiem for a Dream (a noleggio su Prime Video e Apple TV+) non è decisamente il tipo di film che si riguarda volentieri una volta all’anno, forse lo si rivede a distanza di anni dopo la prima volta. Forse anche mai più. Ma di certo è un film che non si dimentica. Mai.
- VIDEO | Qui per il trailer di Requiem for a Dream:
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