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L’Ultimo uomo che dipinse il cinema | Alla scoperta del documentario su Renato Casaro

Il regista Walter Bencini racconta ad Hot Corn il suo docufilm che arriva in streaming su CHILI

Renato Casaro, l'uomo che dipinse il cinema
Renato Casaro, l'uomo che dipinse il cinema

ROMA – «Dipingere è sempre stata la mia passione. Sono nato con la matita in mano». Si vede così, Renato Casaro, il più grande illustratore italiano di manifesti e locandine cinematografiche, mentre si racconta nel bel documentario L’Ultimo Uomo che Dipinse il Cinema, diretto da Walter Bencini appena arrivato in digital (lo trovate qui su CHILI), dove viene illuminato il mito attraverso i suoi poster, accompagnato da testimonianze importanti come quelle di Carlo Verdone, Aurelio De Laurentiis o Terence Hill. «La grande sfida? La scelta del materiale d’archivio, dandogli un ordine», racconta Bencini ad Hot Corn, «Considerate che Renato ha qualche migliaio di opere tra bozzetti, e schizzi originali e una miriade di fotografie di scena, e molto di questo materiale era da scansionare ad alta risoluzione per poterlo utilizzare nel film».

Renato Casaro all'opera
Renato Casaro all’opera

Come e quando nasce la sua amicizia con Renato Casaro?

«Inizialmente volevo fare un film su Silvano Campeggi, altro grande cartellonista italiano. Avevo visto una mostra a Firenze di bozzetti che mi avevano entusiasmato, poi facendo delle ricerche approfondite su questo mondo scoprii il più grande di tutti: Renato Casaro. Famoso più all’estero che in Italia, da qualche anno era tornato a vivere a Treviso. Sono andato a trovarlo più volte, la sua professionalità, simpatia, umiltà e la disponibilità mi avevano colpito, quindi alla fine ho deciso di fare il film su di lui. E durante la produzione è nata una grande amicizia».

Qual è stata la parte più difficile nel girare L’ultimo uomo che dipinse il cinema?

«Il tempo di produzione è molto più dilatato quando si lavora in un ambiente stretto e con una persona anziana, diciamo che in questo caso c’è voluto il doppio del previsto. Durante la produzione ci sono stati diversi imprevisti, tra i quali Renato che si è ammalato del “fuoco di Sant’Antonio”, la morte improvvisa del gatto di casa che è diventata una tragedia immane, e poi l’ansia continua di Renato di non riuscire a finire il film per morte improvvisa…».

Una bozza di Casaro per Il Padrino
Una bozza di Casaro per Il Padrino

Nel documentario si vedono molti intervistati d’eccezione, da Verdone a Terence Hill. Come li avete scelti?

«Sono stati scelti in relazione ai manifesti di successo, alle collaborazioni significative nel caso dei grandi produttori e distributori e poi ovviamente alla loro disponibilità. Comunque sono tutti personaggi che hanno collaborato attivamente alla realizzazione dei manifesti in questione. Ci doveva essere anche Bertolucci che purtroppo è morto quattro giorni prima dell’intervista che avevamo fissato».

Qual è il suo manifesto preferito tra quelli di Casaro?

«Quello di Nikita, di Luc Besson. Perché? Perché è un esempio di sintesi estrema in cui la figura femminile è di spalle e il volto è negato, per lasciare al pubblico la possibilità di immaginare cosa è successo. Secondo me è una delle sue massime espressioni del suo stile: la sintesi grafica».

Walter Bencini e Renato Casaro
Walter Bencini e Renato Casaro sul set.

Cosa si racconta nel film?

«Attraverso la storia professionale di Renato, ho voluto raccontare quello che ha rappresentato il cartellone cinematografico nell’Italia del dopoguerra, riflettendo sul valore artistico del manifesto. Il film è arricchito da filmati di repertorio e dalle testimonianze di collezionisti, critici e personaggi del mondo cinematografico italiano che hanno lavorato con lui, che ci raccontano degli aneddoti curiosi di alcuni manifesti. Attraverso la motion-graphic per la prima volta, abbiamo dato vita a quei fotogrammi congelati da anni, in cui sono racchiusi i sentimenti popolari di intere generazioni. Insomma ho voluto mantenere uno stile frizzante e raffinato, in modo da accompagnare dolcemente lo spettatore in questo mondo così vicino e allo stesso tempo così lontano».

Terence Hill visto da Casaro
Terence Hill visto da Casaro

Perché ha voluto fare questo film?

«Se noi consideriamo il mondo digitale di oggi in cui Photoshop ha totalmente destituito l’arte di dipingere il manifesto, ho sentito il bisogno di restituirgli il giusto valore, e l’ho fatto raccontando la vita professionale di uno tra i più grandi pittori di cinema al mondo. Purtroppo la storia dell’arte del ‘900 ha sempre marginalizzato il manifesto cinematografico e spesso non l’ha preso in considerazione perché era concepito per le masse. La critica ha sempre pensato che i cartellonisti non fossero artisti, io invece penso che alcuni di loro lo siano. Alcuni manifesti di Casaro vanno oltre quello per cui sono stati concepiti, si possono considerare vera e propria arte popolare. Non c’è soltanto la tecnica pittorica perfetta, la genialità creativa, e il rimando al film, c’è anche un valore personale legato a chi li guarda, perché vengono accese delle emozioni e ricordi legati a ad un vissuto. A tale proposito Fellini diceva: “I manifesti cinematografici si fanno amare perché sono come le canzonette: ti riportano a certi momenti della tua vita, impedendoti di perderli”».

Walter Bencini e la sua camera su Casaro
Bencini e la sua camera su Casaro

Ma chi è Renato Casaro ?

«Uno tra i più grandi pittori di cinema del mondo, le sue opere più importanti sono entrate nell’immaginario collettivo, di intere generazioni. Ha lavorato con i più importanti registi di ogni tempo: da John Huston a Sergio Leone, da Claude Lelouch a Dario Argento, da Rainer Werner Fasbinder a Bertolucci, da Giuseppe Tornatore a Francis Ford Coppola, da Martin Scorsese a Besson, solo per citarne alcuni. Ha lavorato durante il periodo d’oro del cinema italiano, in un epoca in cui la televisione era agli albori, e il manifesto era il mezzo principale per portare la gente al cinema, decretando talvolta il successo o il flop di un film. La sua bravura glia ha permesso di lavorare su tutti i generi cinematografici arrivando a produrre più di 2000 manifesti. A differenza dei colleghi italiani che facevano soltanto la versione italiana, Renato faceva versioni per gli altri paesi europei e negli anni 80/90 per il mercato mondiale, diventando un artista internazionale. Casaro è riuscito a dare ai vari generi cinematografici una dignità figurativa tale, che spesso i suoi manifesti sono molto più belli dei film che devono pubblicizzare».

Perché lo ha intitolato: L’ultimo uomo che dipinse il cinema?

«Perché Renato è l’ultimo tra i più grandi ancora viventi ed è anche è quello che ha smesso di lavorare per ultimo. Considerate che ha avuto una carriera lunghissima, ha iniziato nel 1953 e ha smesso nel 1999. La maggior parte degli altri cartellonisti hanno smesso a metà degli anni Settanta e Ottanta, lui è riuscito a durare più a lungo perché utilizzava lo stile iperrealista».

Ma girando il film ha capito qual è l’unicità del tocco di Casaro?

«Renato è stato il primo ad utilizzare l’aerografo nel mondo del manifesto. L’utilizzo che lui ne fa negli anni Ottanta è innovativo, e farà scuola inventando uno stile. L’aerografo lo utilizza ad un livello di perfezione assoluta per creare effetti di luce, smussare i contrasti oppure ad accentuare dei chiaro scuri, o per ammorbidire lo sfondo e creare una prospettiva migliore. Secondo la mia opinione personale, molti dei suoi lavori iperrealisti, rivaleggiano in maniera assoluta e talvolta vincono sulla fotografia. Se uno guarda un manifesto di Casaro non capisce se ha rielaborato una foto o se l’ha disegnato davvero!».

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