Ci sono film italiani che fanno ancora sperare. Opere appartenenti ad un filone che si distacca dalla riproduzione in serie dei soliti prodotti usa e getta e che riescono a penetrare nell’animo dello spettatore, come ci si aspetterebbe da un lavoro cinematografico. E, in questa moltitudine di film trascurabili, sorgono ogni tanto piccoli barlumi di creatività, che vanno incanalandosi sulla strada di un cinema indipendente italiano. Questo è il caso de Il bene mio, opera seconda di Pippo Mezzapesa in sala dal 4 ottobre, fiaba che trova nel dolore di un uomo, solo nel suo paesino abbandonato, una dolcezza tenera e malinconica. Interprete del film, Sergio Rubini, eremita che, soprattutto con gli occhi, svela la propria inadeguatezza nel sapersi riadattare, mostrando un attaccamento che lega inevitabilmente lo spettatore al protagonista. Ecco il personaggio di Rubini, i luoghi del racconto e la loro intimità nelle parole di Mezzapesa.

UNO STRANO EREMITA «Il mio protagonista? È un eremita, ma è in lotta. Non vuole abbandonare il suo paese come hanno fatto altri che lo hanno tradito. Lui è legato a quelle pietre, raccoglie degli oggetti che stanno a rappresentare la vita che è rimasta dei suoi compaesani. Lui è un combattente, non ha scelto di isolarsi e dimenticare il mondo, piuttosto vuole riportare la vita a Provvidenza. Per questo volevo fosse un personaggio vitale e solare, ovviamente a modo suo».

IL TERREMOTO «Certo, il terremoto nel film ha un valore fisico, ma volevo fosse anche metaforico. Si parla di crolli e anche quando si soffre si affrontano delle cadute. Elia – il personaggio protagonista – ha la sua maniera di elaborare l’accaduto e crede che per andare avanti bisogna sapere chi si è, ma anche chi si è stati. È un pastore che cerca in tutti i modi di far ritrovare la strada giusta alla sua comunità e lo fa raccogliendo ciò che è rimasto dopo il terremoto».

LA MIA PUGLIA «Il paesino di Provvidenza? No, non esiste in realtà, ho cercato location che mi restituissero l’idea di paesi disabitati e per farlo ho visitato tutto il territorio da Roma in giù. Alla fine, poi, mi è apparsa Apice, che è veramente abbandonata, e Gravina, in Puglia. Non è stato facile girare in luoghi così ostici, è solo grazie alla follia e all’audacia del nostro produttore se ce l’abbiamo fatta, mi ha dato il coraggio di affrontare questa avventura. Lì sono riuscito a trovare tutti quegli elementi che mi potessero dare l’idea di una vita passata».

LA GRANDE SFIDA «Qual è stata la sfida? La sfida che mi ero posto era quella di riuscire a raccontare una comunità senza mai mostrarla. I cittadini di Provvidenza hanno lasciato la loro terra e le persone che vanno a trovare Elia fanno parte di un tempo andato, di cui non vediamo mai la nuova esistenza, visto che non scendiamo con loro, né vediamo il loro cambiamento. Possiamo soltanto presumerlo da quello che raccontano a Elia. Questo è l’obiettivo a cui ho puntato».

MA LI MORTACCI «È bello quando, dopo il film, si riescono a trovare involontariamente connessioni con altre opere. Questo accade perché durante la visione di un film ci portiamo dietro tutto quello che abbiamo letto, tutto quello che abbiamo visto. Per esempio, nel personaggio di Dino Abbrescia, dopo aver rivisto il film, ho ritrovato il Nino Frassica di Mortacci di Sergio Citti, in cui, tra l’altro, c’era proprio un giovane Sergio Rubini».

IL NOME DEL PAESE «Sul nome del paesino abbiamo discusso molto. Ad Antonella Gaeta, co-sceneggiatrice con me e Massimo De Angelis, piaceva molto, mentre noi due eravamo un po’ dubbiosi. Il fatto è che mi ricordava i film di Bud Spencer. Ma alla fine abbiamo visto che riusciva a creare un contrasto molto forte, come ne I Malavoglia di Verga, in cui la barca – Provvidenza, per l’appunto – va incontro al naufragio. Certo, nel libro di Verga la visione è pessimistica, qui invece c’è un paese che si sgretola, ma il riunirsi è poi più saldo.»
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Qui una clip de Il bene mio:
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