ROMA – Quello di Medea è senz’altro uno dei personaggi più controversi e affascinanti della letteratura e in esso della mitologia greca. Euripide la rese immortale nella tragedia omonima, andata in scena per la prima volta alle Grandi Dionisie del 431 a.C. Qui Medea ci viene raccontata come una donna straripante, emotiva e passionale, vittima di pulsioni interne incontrollabili. In perenne bilico tra razionalità e passione – come scissa, letteralmente, in due figure opposte e dicotomiche – i suoi stati d’animo culminano negli omicidi della giovane sposa di Giasone e dei propri figli. Tutti atti di straordinaria ferocia, non privi di dubbi, proposti in scena in un alternarsi di propositi omicidi e pentimenti.
Poi ci furono le re-interpretazioni di Medea, come quella compiuta da Ovidio che ne raccontò la grandezza e i turbamenti in tre opere distinte: Heroides, Le Metamorfosi e la tragedia omonima, Medea, andata perduta. Degna di nota, in particolare, quella de Le Metamorfosi, oscillante tra ratio e furor, mens e cupido, riprendendone l’essenza di Apollonio Rodio e le sue Le Argonautiche del III secolo a.C. nella sua netta scissione tra il padre Eete e Giasone, per poi dissolversi come per magia sino a divenire un’autentica strega. Evoluzione caratteriale che la priva del pathos necessario a quel definitivo scatto drammaturgico causante sofferenza e dolore per l’infanticidio commesso.
Medea fu reinterpretata inoltre da Seneca, Ennio, Eugène Delacroix in forma pittorica (La furia di Medea) dove la vediamo in una grotta, nascosta, intenta a compiere l’atroce delitto, prima di essere colpita da una delicata luce obliqua. E poi il cinema dove nel 1969 Pier Paolo Pasolini scelse la tragedia di Euripide come punto finale del Ciclo Mitico iniziato nel 1967 con Edipo Re per poi proseguire nel biennio successivo tra Teorema e Porcile. Una scelta niente affatto casuale per l’autore: «Il tema, come sempre nei miei film, è una specie di rapporto ideale, e sempre irrisolto, tra mondo povero e mondo plebeo, diciamo sottoproletario, e mondo colto, borghese storico. Questa volta ho affrontato direttamente, esplicitamente questo tema».
Pasolini scese ancor più nei dettagli del perché realizzare un adattamento politico della tragedia di Euripide: «Medea è l’eroina di un mondo sottoproletario, arcaico, religioso, Giasone invece è l’eroe di un mondo razionale, laico, moderno. E il loro amore rappresenta il conflitto tra questi due mondi. Non soltanto non vedo differenza tra l’Edipo e Medea, ma non vedo nemmeno differenza tra Accattone e Medea, e nemmeno molta differenza tra il Vangelo e Medea. Praticamente un autore fa sempre lo stesso film per un lungo periodo della sua vita, come uno scrittore scrive sempre la stessa poesia. Si tratta di varianti, anche profonde, di uno stesso tema».
Mondi, l’arcaico e moderno, uniti dalla violenza – sacra e rituale nel primo, nichilista, sadica e funzionale nel secondo – raccontati da Pasolini attraverso una versione antimoderna del mito di Medea fatta di costruzione d’immagine kolossal scarna, ruvida e senza filtri, dove all’azione scenica si oppongono silenzi e sguardi carichi di significati oracolari. Al centro della scena una straordinaria Maria Callas alla sua ultima performance sul grande schermo e che – anche per via delle sue origini greche – fu in qualche modo legata al ruolo mitologico per tutta la sua carriera lirica. Molti anni prima di Pasolini, la Callas fu Medea nell’omonima opera in tre atti del 1953.
Un’opera particolare quella Medea, ideata nella forma dell’opéra-comique (parti cantate e dialoghi recitati) e ispirata a Euripide, Seneca e alla versione seicentesca di Corneille, le musiche furono composte da Luigi Cherubini nel 1797 su libretto di François-Benoît Hoffmann. Dimenticata in patria per oltre un secolo nonostante una prima esibizione straordinaria del duo Julie-Angélique Scio/Pierre Gaveaux, nel corso dell’Ottocento fece il giro d’Europa prima di arrivare, in Italia, nel 1909 con Carlo Zangarini che ne tradusse il libretto dalla versione tedesca. Andò in scena quello stesso anno al Teatro alla Scala di Milano con la coppia Ester Mazzoleni/Nazzareno De Angelis, per poi essere riproposta negli anni Cinquanta con una Callas straordinaria dall’interpretazione iconica e paradigmatica.
Non a caso la porterà in giro per il mondo la sua Medea nel decennio successivo tra Dallas e Londra (nel 1959, a Covent Garden), e ancora a Milano (nel 1961, alla Scala), coincidente con il declino della sua linea vocale, si, ancora veemente e cospicua, ma intaccata ormai da un forte vibrato e dal registro acuto indebolito e accorciato. Infine il 1969 con la Medea pasoliniana. Un ruolo scelto anche per ragioni private. L’anno precedente l’armatore Aristotele Onassis, il suo grande amore travagliato, rifiutò di sposarla nonostante lei avesse rinunciato alla cittadinanza americana e quella italiana (naturalizzata) per tornare a quella greca di origine.
Scelse invece Jacqueline Kennedy, vedova di John Fitzgerald. E quindi Medea, nella speranza di riavvicinare il suo vecchio amante. La proposta gli venne fatta da Renzo Rossellini, suo amico di vecchia data, che si fece garante contro ogni rischio di trivializzazione del ruolo. Nulla a che vedere con il registro scelto da Pasolini che ripropose la tragedia di Euripide in chiave barbarica mostrando il contratto traumatico di Medea con il mondo civile. La lavorazione di Medea permise alla Callas di distrarsi dai propri fantasmi e arricchirsi culturalmente e umanamente di un mondo diverso, meno ingessato di quello operistico e per nulla sfarzoso come poteva essere invece l’alta società di Onassis.
Di quel periodo Pasolini, oltre a un memorabile viaggio di location scouting tra Uganda e Tanzania per un film che pensava di girare (Appunti per un’Orestiade africana), raccontò tra le pagine di un diario costituito da una serie di poesie – raccolte poi in Trasumanar e organizzar – che riflettono l’intesa artistica e l’amicizia profonda con la Callas, sino quasi a raggiungere incontrastati toni amorosi. Dirà di lei in un’intervista televisiva con Enzo Biagi: «Mi affascina in lei questa violenza dei sentimenti. È incapace di provare un sentimento piccolo, meschino» e tanto basta a certificare l’eccezionalità artistica (e umana) di un’opera come la sua Medea.
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