ROMA – A quattro anni dal ritiro dalle scene, nel settembre 1977, Maria Callas riceve un giornalista per ripercorrere la sua vita in un’intervista. Sarà l’occasione per un viaggio nel viale dei ricordi mentre la Divina prepara un ritorno sulle scene che nessuno si aspetterebbe. Presentato in concorso a Venezia 81 e con protagonisti Angelina Jolie, Pierfrancesco Favino, Alba Rohrwacher, Vincent Macaigne, Kodi Smit-McPhee, Valeria Golino e Haluk Bilginer, ecco Maria di Pablo Larraín. La tumultuosa, tragica e bellissima storia della vita della più grande cantante lirica del mondo rivisitata e reinterpretata durante i suoi ultimi giorni. Precisamente l’ultima settimana. Arriva oggi al cinema con 01 Distribution Maria, atto finale della trilogia al femminile di Larraín iniziata nel 2016 con Jackie e proseguita poi nel 2021 con Spencer.

Un film che parte da lontanissimo, Maria, precisamente dai ricordi d’infanzia dell’autore cileno: «Fin da piccolo ho amato moltissimo l’opera. Adoravo andare a vedere le opere che hanno reso celebre la Callas nonostante lei non fosse già più in vita, mi sentivo fluttuare quando uscivamo dal teatro; quando tornavamo a casa, mia madre mi diceva: “Ecco, hai visto quanto è bella l’opera lirica”. A mia madre piaceva la Callas, e sono cresciuto in compagnia della sua voce angelica. In seguito ho avuto modo di conoscere altri aspetti della sua vita. Perciò, dopo aver girato Jackie e Spencer, la figura di Maria Callas mi sembrava la scelta più giusta per completare questa trilogia. Maria è anche il mio primo film su un personaggio artistico e per questo motivo riesco a relazionarmi con lei anche sul piano personale».

Questo ci porta al modo in cui Larraín si relaziona in termini filmici con il mito della Divina, a partire dalla sua concezione dell’opera lirica e come questa viene implementata nei delicati equilibri del racconto: «È una forma di trascendenza, un modo per esprimere emozioni ineffabili. Molte delle opere liriche interpretate da Maria Callas sono tragedie, quindi il personaggio principale da lei incarnato spesso muore nell’ultima scena. Le storie di queste opere sono molto diverse rispetto alla sua vita, ma secondo me c’è un legame fra la Callas e i personaggi che interpretava. Ne ho parlato con Steven (Knight) proprio all’inizio del progetto: Maria racconta la vita di una persona che si immedesima con le tragedie che mette in scena». Vale a dire un’espressione empirica e tangibile, per immagini, del potere taumaturgico dell’arte.

Connotazione che pervade ogni componente di Maria. Dall’impianto narrativo suddiviso in tre Atti e coda Finale nella sua elegante digressione temporale che parte dalla fine per poi riavvolgere il nastro, al gioco onirico-immaginario di cui Larraín si serve ogni volta che la Divina canta in un montaggio alternato che è celebrazione della vita artistica e intima della donna Maria dietro l’icona Callas tra passato glorioso in bianco-e-nero e presente spento a colori. Un ritratto affettuoso e commuovente percorso di immagini dalla costruzione ricercata e di quell’armonia elegante tipica dello stile registico di Larraín nei suoi movimenti di camera impercettibili che è, al contempo, indagine delle ragioni del processo creativo di Maria Callas, viaggio nelle memorie di una vita irripetibile e straordinaria affermazione identitaria.

«Mia madre mi ha costretto a cantare, Onassis mi ha proibito di cantare e adesso voglio cantare solo per me stessa» dice a un certo punto l’agente scenico principe. La Maria di una Jolie allo stato dell’arte e di cui Larraín – che ha dichiarato essere stata la prima, unica e sola scelta per il ruolo della Callas (al punto che senza di lei Maria non ci sarebbe mai stato nda) – esalta tutta la forza, il talento, il corpo leggero e la potenza vocale. Una sopravvissuta che si guarda indietro con grazia e fierezza e che soltanto alla fine, in un ultimo guizzo vitale come può essere la ricostruzione della propria voce a lungo sopita, riscopre sé stessa riappropriandosi del suo più intimo Io.

Non ultimo i nostri Pierfrancesco Favino e Alba Rohrwacher, che come Ferruccio e Bruna creano intorno a lei una rete di sicurezza fatta di amore e comprensione, segnalandosi per intensità e grazia recitativa tra gesti significativi, silenzi e sguardi che dicono più di mille monologhi. Un film, Maria, che al pari dei precedenti Jackie e Spencer trascende la matrice del genere biopic sino ad elevarsi a opera universale sull’arte, la vita e come la creatività li mette in relazione, per poi rifondarla a ogni sequenza, ogni inquadratura, ogni movimento di macchina delicato come solo Larraín è in grado di fare. Ne sentiremo parlare ancora tanto e a lungo…
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