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L’uomo nel bosco | Félix Kysyl, Catherine Frot e il magnifico cinema di Alain Guiraudie

Un funerale, una vedova inconsolabile, una piega inaspettata. Dal 16 gennaio al cinema

Félix Kysyl in una scena di L'uomo nel bosco
Félix Kysyl in una scena di L'uomo nel bosco

ROMA – Alle origini de L’uomo nel bosco, il nono lungometraggio da regista dello stimato Alain Guiraudie, precedentemente autore del celebrato e controverso Lo sconosciuto del lago e così de L’innamorato, l’arabo e la passeggiatrice, c’è un giovane uomo che dopo essere fuggito dal proprio passato e aver dunque mentito a sé stesso e agli altri per un’intera vita, sceglie di tornare laddove tutto è cominciato. Ai luoghi dei primi amori, dolori e inevitabilmente non detti. Gli stessi che hanno permesso alle crepe dell’anima e del cuore, di farsi sempre più profonde e non più rimarginabili, a causa della grande menzogna e della vita che è stata, appena dopo la fuga e il rifiuto dell’amore. Jérémie Pastor (eccellente prova quella di Félix Kysyl, eternamente sospeso tra disorientamento e feroce maniacalità) torna a Saint-Martial, una piccola comunità francese immersa nei boschi (è lì che si nasconde la natura, è lì che viene camuffata la morte), per onorare la scomparsa del suo ex capo, nonostante gli irrisolti addii del passato e ciò che a quest’ultimo è sopravvissuto, trascinandosi fino al presente. Ha un nome, Vincent (Jean-Baptiste Durand) e un corpo, quello di Walter (David Ayala), che nonostante il tempo e l’inevitabile cambiamento, resta ancora oggetto del desiderio per il giovane Jérémie.

L'uomo nel bosco di Alain Guiraudie, dal 16 gennaio al cinema con Movies Inspired
L’uomo nel bosco di Alain Guiraudie, dal 16 gennaio al cinema con Movies Inspired

Ad attendere ciascuno di questi uomini, gli imprevisti della fiducia tradita, dell’amore negato e forse perfino dell’abbaglio, nei confronti di una fede che forse non è mai stata realmente tale, tradendosi, divenendo inaspettata illusione, o peggio, insidia e pura manipolazione. Se la prima parte de L’uomo nel bosco, quella dunque boschiva, nebbiosa e mistery, sembrerebbe richiamare il cinema di Xavier Dolan (Tom à la ferme su tutti), è solo in un secondo momento che Guiraudie, sceglie di mostrare la natura reale del suo ultimo lungometraggio da regista. Ed è proprio allora, che lo spettatore attonito, non può far altro che osservare il crollo di un enorme castello di carte, precedentemente retto da bieche convinzioni e ingenue ricostruzioni di una scrittura che fonde e confonde ambiguamente, elementi di melò, psyco thriller, dramma introspettivo e cinema grottesco. Infatti pur riflettendo sulle conseguenze di una sparizione improvvisa e angosciante (della quale lo spettatore ben conosce le cause e così le ragioni), seguita dalle relative indagini e ricerche, L’uomo nel bosco è sulle crepe non più rimarginate, nate dalla distanza tra la memoria del passato e quella dei corpi – c’è realmente stata attrazione? O perfino allora, l’illusione è stata causa dell’addio e della fuga? – che sceglie di concentrarsi, osservando gli elementi del thriller e del mistery come tracce curiose, eppure secondarie di un’indagine maggiore, che è quella di Guiraudie e così di ciascuno di noi. Fino a quale luogo di perdizione e poi persuasione, una menzogna può condurre e mutare l’esistenza di un giovane uomo come tanti? Com’è possibile che il male della violenza, ne oscuri un altro ben peggiore, latente ed instancabile?

Félix Kysyl in una scena di L'uomo nel bosco
Félix Kysyl in una scena di L’uomo nel bosco

A differenza del lodato e controverso Lo sconosciuto del lago, Alain Guiraudie con L’uomo nel bosco si sposta sempre più verso la commedia nera – anzi, nerissima – che molto deve al cinema dei Fratelli Coen e più ancora al dramma Pasoliniano – l’influenza di Teorema è evidente, seppur mai dichiarata -, muovendosi abilmente tra più registri e linguaggi, preferendo di gran lunga al dramma più crudo e disperato, la risata. Nonostante questo, non vi è mai un pieno sollievo, perfino nell’osservazione del buffo, dell’inaspettato e del grottesco – il segmento, dunque svelamento conclusivo sul prete interpretato da Jacques Develay, vale in questo senso la visione del film -, il quale non conduce in alcun modo i suoi personaggi alla soluzione delle ambiguità e del male perpetrato e inevitabilmente subito, piuttosto alla definitiva crudeltà e alla perdizione, quella vera, che ha a che fare con l’anima, gli istinti e la dignità. L’uomo nel bosco è un eccellente esempio di cinema autoriale, capace di far propri linguaggi bassi e linguaggi alti, intrecciandoli tra loro, fino alla messa in luce di uno sguardo nuovo, che è certamente scaturito da chi intende sprofondare lo spettatore nel dramma dell’ambiguità e dell’esistenzialismo più cupo, solitario e disperato, ma anche e soprattutto da chi attraverso la risata, intende mostrare la morte e le insidie dei corpi, così come delle seduzioni taciute e opportunamente celate. Che grande film, che follia.

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