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Ghostbusters | La felice nostalgia di un mito e quei fantasmi per amici

Quarant’anni dopo, cambiano film e stili ma la passione per Ghostbusters continua. Ma perché?

La banda dei Ghostbusters sul set. Era il 1984.

ROMA – 1984, New York. Tre ragazzi con improbabili tute e strani zaini sulle spalle, si aggirano tra gli oscuri corridoi della New York Public Library, appena dietro Bryant Park, in cerca di una spettrale Signora in Grigio. I loro nomi? Peter Venkman, Raymond Stanz ed Egon Spengler, a cui si aggiungerà, più avanti – del resto, di lavoro da fare, nella Grande Mela, ce n’è – Winston Zeddemore. A volte i grandi miti della cultura pop nascono così, quasi per caso, improvvisamente traslati da apparizioni in leggende. E proprio così nasceva l’icona Ghostbusters nel lontano giugno del 1984, anche se in Italia sarebbe arrivata poi nel gennaio del 1985. Quattro bislacchi individui con la loro folle missione: andare a caccia di ectoplasmi.

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Harold Ramis, Dan Aykroyd e Bill Murray scherzano con il regista, Ivan Reitman. Era il 1984.

Irresistibili e mitici, con un pubblico che – e non era così scontato, non a quel livello – li adorò immediatamente: 300 milioni di dollari al botteghino (un’enormità per l’epoca), secondo posto in Italia dietro solo a Non ci resta che piangere e il boom di un merchandising secondo solo a Star Wars e Star Trek. Numeri a parte, l’aspetto più rilevante di Ghostbusters oggi è che quei quattro assurdi nerd (e sì, anche padri di The Big Bang Theory, fateci caso) non sono invecchiati di un secondo. E, ritrovandoli ogni volta in televisione o in qualche scena su YouTube è sempre come ritrovare quattro amici con cui ridere delle stesse cose: le battute recitate a memoria, le sequenze indimenticabili e quel «mai incrociare i flussi» ormai gergo comune.

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In attesa del ciak: Murray, Ramis, Huston e Aykroyd. In mezzo, Sigourney Weaver

Venkman, Stantz, Egon e Winston fanno parte dell’immaginario pop di una generazione affacciata sui colori fluo e sulle sonorità anni Ottanta, proiettata verso un futuro che non sembrò mai tanto veloce come allora. E non è un caso, forse, che il film di Reitman (con un sequel uscito nel 1989, un discusso reboot al femminile nel 2016 e un sequel diretto da figlio, Jason Reitman), parli del passato, che si riaffaccia sul presente sotto forma di un nightmare da rinchiudere in uno zaino protonico, sulle spalle di un poker da leggenda: Dan Aykroyd, Ernie Huston, Harold Ramis e Bill Murray.

Ivan Reitman sul set parla con i quattro protagonisti.

Non scordiamo nemmeno la sexy e tostissima Sigourney Weaver, nonché l’essenziale Rick Moranis, che meriterebbe un capitolo a parte. Peter, Raymond, Egon, Winston, come i moschettieri, come i Beatles, come i punti cardinali, come quattro pazzi a bordo della sgangherata ECTO 1 (nome scentifico: Cadillac Ambulance Miller-Meteor limo-style endloader combination, data ’59), su cui tutti, almeno una volta nella vita, avremmo voluto fare un giro.

L’omaggio a Ghostbusters nella seconda stagione di Stranger Things.

Se vi capita di passeggiare per Manhattan, vicino alla caserma dei pompieri al 14 N Moore St di TriBeCa – usata come location per il quartier generale e oggi meta di pellegrinaggio e selfie – vi verrà naturale cercarla nel traffico, con l’inconfondibile sirena a spiccare nella soundtrack tra rumori, clacson, ambulanze, martelli pneumatici che accompagnano, giorno e notte, New York. E proprio Gotham è, per i Ghostbusters, l’orizzonte perfetto. In procinto di sbocciare nei primi anni Ottanta, quasi pronta per essere la capitale universale della verticalità e delle luci pubblicitarie.

Il mito in mattoncini: i Ghostbusters in versione Lego.

E no, non abbiamo dimenticato Marshmallow Man, mascotte della fantomatica ditta dolciaria Stay Puft, che prende forma perché la sua immagine è impressa nella mente di Aykroyd. «Era la pubblicità, bellezza», parafraserebbe qualcuno a questo punto, e ben lo aveva intuito Reitman che usò New York non solo come scenografia e palcoscenico su cui muovere i suoi burattini, ma anche come specchio per riflettere e amplificare spettri e presenze, sensazioni e demoni.

Rick Moranis sul set tra Aykroyd e Reitman.

Ma perché oggi amiamo ancora così tanto quei quattro acchiappafantasmi? Semplice, perché ci riconosciamo e li riconosciamo. Arrivati da un’altra epoca eppure sempre nuovi, omaggiati e citati (qualcuno ha detto Stranger Things?), addirittura capaci di volare fuori dal loro perimetro cinematografico per farci ridere ed emozionare, gioire e sobbalzare, come pochi characters sono stati in grado di fare. «Who you gonna call?», cantava Ray Parker nella canzone che divenne poi un tormentone degli anni Ottanta. La risposta è sempre la stessa: Ghostbusters!

  • LEGENDS | I miti di ieri rivisti oggi
  • VIDEO | Qui invece il video originale della canzone di Ray Parker Jr.:

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