MILANO – Isabella Rossellini che interpreta la proprietaria di un birrificio che ha subito una doppia amputazione alle gambe, Maria de Medeiros che interpreta una ninfomane affetta da amnesia, un uomo che sul palco veste i panni di Gavrilo Prinzip e quella che è probabilmente la versione più strana e melanconica di California Here I Come che si sia mai sentita. Sembra l’inizio di una barzelletta per cinefili? No, sono questi i protagonisti de La canzone più triste del mondo (lo trovate su CHILI), un film che risulta sempre essere più strano di quanto non ci si aspetti, diretto da un regista poco conosciuto in Italia e, purtroppo, ancora meno apprezzato: Guy Maddin.
La canzone più triste del mondo è un musical grottesco. Nella piccola città di Winnipeg, in Canada, Lady Port-Huntley ospita un festival internazionale per decretare quale paese abbia la musica nazionale più triste del mondo. Il premio? Il vincitore tornerà a casa con 25mila dollari. Oggi non sembra una cifra così elevata, ma è forse il caso di sottolineare che il film è ambientato durante la Grande Depressione, in piena epoca del Proibizionismo. E a quel tempo, quella somma era una vera fortuna. L’America era in ginocchio, la popolazione moriva di stenti e il sogno americano degli anni Venti sembrava essersi infranto dopo la crisi economica.
Il Canada era rimasto la terra libera, dove si tentava di fare fortuna e, soprattutto, l’alcol scorreva libero a fiumi. I rappresentanti delle nazioni allora si sfidano ogni sera a coppie, i conduttori commentano le canzoni e la loro tristezza con battute poco felici e chi vince a ogni round fa il bagno in una vasca piena di birra. Ma quale sarà, alla fine, la musica più triste del mondo? Forse qualcuno lo scoprirà, anche se a caro prezzo. Basterebbe questo per definirlo un film a dir poco particolare, ma La canzone più triste del mondo è molto di più.
Guy Maddin è un regista radicale e nella sua filmografia sfida apertamente tutti coloro la cui unica religione è il progresso delle tecniche di regia. Lui, invece, sembra tornare indietro. Legato al cinema degli inizi, quello degli anni Venti e Trenta a Hollywood, ne riprende non solo il bianco e nero a grana sporca ma anche le tecniche, gli effetti, le inquadrature. Se non si leggesse prima della visione che la pellicola è del 2003, si potrebbe benissimo pensare che risalga a quegli anni. Straniante, è la prima reazione, caotico ma pregno di un profondo pathos.
Guy Maddin allestisce un universo che ha proprie regole e dinamiche, un cinema diverso che tenta di perfezionare da più di vent’anni. Cinico a dismisura, è pervaso da una tristezza che non si può definire in altro modo, se non grottesca. Ci vollero cinque anni per la lavorazione del film e quando uscì nelle sale in Italia stupì l’ardire di un tale stile, a cui il nostro Paese non era per niente avvezzo. Può piacere o meno, lo si può apprezzare o criticare, ma La canzone più triste del mondo rimane uno di quei film che prima o poi bisogna necessariamente recuperare.
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