VENEZIA – Una vera e propria infestazione: Gotham City è inondata dall’immondizia. Diecimila tonnellate di spazzatura, dicono i notiziari alla tv. È ovunque: sui marciapiedi, nelle case, nei rumorosi vagoni della metropolitana che, ogni giorno, trasportano da nord a sud ricchi e poveri. Insomma, ci sono tutti nei sotterranei della metro, l’unico posto rimasto in cui si è ancora tutti uguali. Siamo nel 1982, ma il richiamo temporale, pur importante narrativamente, non è fondamentale nell’intreccio metaforico. Quindi, se la spazzatura resta lì, i ratti diventano giganteschi quasi quanto i pipistrelli. Mentre le montagne di rifiuti diventano insormontabili, con il loro nauseante puzzo.

Così, l’incipit del Joker di Todd Phillips e di Joaquin Phoenix, mette subito le cose in chiaro, quasi a dire “questa non è solo roba da fumetti”. E, se i fumetti – figuriamoci la figura da cui è tratto il film – sono vere e proprie opere d’arte, Joker non è solo un film straordinario. Ma è anche e soprattutto un film che resterà, che continuerà ad essere citato, raccontato. Che, in qualche modo, rimarrà addosso, come quel trucco sbavato che proprio non vuole venir via, dopo che avete giocato davanti allo specchio – come foste il Travis Bickle di Taxi Driver – immaginando di essere qualcun altro. Mentre ballate sulle note di Frank Sinatra, e del suo inno effimero alla felicità che non esiste. “I said, that’s life (that’s life) and as funny as it may seem…”.

E per Arthur Fleck la felicità altro non è che il mostro più oscuro che lo tormenta. Lui, “nato per far ridere”, dice sua mamma, eppure finito conciato da clown su un lurido marciapiede. Lui, con il sogno di far lo stand-up comedian, ma diventato lo zimbello, guarda caso, del Re della Commedia. Infatti i richiami, nonché l’attualizzazione e l’ideale evoluzione di Robert De Niro, nel film di Martin Scorsese, sono preponderanti nell’ideale cinematografico avuto da Todd Phillips e dallo sceneggiatore Scott Silver. Qui, c’è Arthur Fleck, Quasimodo deformato, traumatizzato da un passato tanto sconvolgente che lo fa ridere. Ma, quella di Arthur, è una risata strana, malata, disegnata come in un fumetto inquietante, ritratta da Phillips come nella migliore arte drammatica. “La risata non rispecchia necessariamente il mio stato d’animo”, è scritto su di un tesserino che porta in tasca.

Quelle risa stridule, impossibili da placare, mescolate all’incessante musica composta da Hildur Guðnadóttir, che non stacca quasi mai dalle immagini di Phillips, altro non sono che uno straziante grido d’aiuto, inghiottite in un vuoto che non ha fine, né inizio. Eppure, capaci di insinuarsi nelle orecchie di chi è come lui, scavalcando il delicato confine tra giusto e sbagliato, creando quel mito perverso che ha dato origine alla leggenda. Perché, ovviamente, le risate sono contaggiose, e Todd Phillips pone la domanda scomoda a cui è impossibile rispondere. E se Arthur fosse solo una vittima? Schiacciato da una società che fagocita e non mastica, politicamente assuefatta allo slogan più che dai fatti. Dimenticando proprio quei rifiuti, lasciandoli marcire sotto le luci al neon di un non-luogo chiamato Gotham.

Del resto, uno come Arthur non può avere nulla; uno come Arthur non può avere un palcoscenico. Ma solo una lunga scalinata che, ogni sera, lo riporta a casa, lì dove odio e amore si respingono come fossero scariche elettriche di una follia indotta. Allora, Joaquin Phoenix, rivede il personaggio sotto un’altra luce: si martella, si sfinisce mentalmente ancor prima che fisicamente. Si rinchiude in un frigorifero, alterna consapevolezza e follia, mischia la tragedia e la commedia. Fondendo la tenerezza all’inconsapevolezza di essere il nuovo cattivo da sbattere in prima pagina. Continuando a ridere fino alle lacrime. E allora sì, spegnete le luci: il Joker è appena entrato in scena. Capolavoro.
- Joaquin Phoenix: «Il mio Joker, libero e folle senza alcun riferimento al passato»
Qui il trailer di Joker
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