MILANO – Tom Cruise e l’Oscar è una di quelle storie che a Hollywood vanno avanti da ormai quasi quarant’anni, l’eterno racconto del divo amato dal pubblico che non riesce però ad arrivare mai all’agognata statuetta e al riconoscimento critico che meriterebbe. Abbiamo seguito anno dopo anno l’inseguimento di Leonardo DiCaprio fino al trionfo per Revenant nel 2016, abbiamo osservato anche il percorso di Brad Pitt, premiato poi per C’era una volta a Hollywood nel 2020, ma per Tom Cruise il traguardo dell’Oscar al momento pare piuttosto lontano, sfiorato due anni fa da produttore per Top Gun: Maverick, ma apparentemente un miraggio viste le scelte fatte dall’attore, ormai impegnato nella conclusione della saga di Mission: Impossibile. A meno che non sia ancora Alejandro G. Iñárritu, come nel caso di DiCaprio, a portare l’Oscar a Cruise visto che i due si uniranno per il prossimo film, in uscita nel 2026 e ancora senza titolo.

Eppure c’è stato un momento in cui sembrava che l’Oscar a Tom Cruise fosse solo questione di tempo. Dopo la prima nomination nel 1990 per quella che ancora rimane una delle sue prove migliori in Nato il 4 luglio di Oliver Stone e quella al Golden Globe per Codice d’onore di Rob Reiner (altro grande film), nel 1996 fu Cameron Crowe a regalargli uno dei personaggi migliori della sua carriera. Quale? Un procuratore sportivo senza scrupoli, ritenuto tra i più brillanti agenti della Sports Management International: Jerry Maguire. In realtà il ruolo non doveva essere suo: Crowe aveva scritto la sceneggiatura con in mente Tom Hanks, poi offrì il ruolo a Woody Harrelson che rifiutò. Così spuntò Cruise, che aveva appena finito di girare con Brian De Palma il primo Mission: Impossible. Il resto è storia: 275 milioni di dollari di incasso, cinque nomination per il film e un Oscar vinto, quello (abbastanza assurdo) come attore non protagonista a Cuba Gooding Jr. con Cruise che si fermò alla candidatura, sconfitto da Geoffrey Rush per il suo pianista David Helfgott di Shine.

Jerry Maguire divenne però un fenomeno sociale, finendo nell’immaginario collettivo grazie ad alcune scene cult («You Had Me at Hello» detto da Renée Zellweger ) e a una canzone di Bruce Springsteen (Secret Garden). E poi? Smaltita la delusione, Tom Cruise finì direttamente sui set di Stanley Kubrick e Paul Thomas Anderson, con Eyes Wide Shut e Magnolia che arrivarono in sala a sei mesi di distanza: il 16 giugno e il 17 dicembre del 1999. Due film importanti diretti da due registi totali per cui in molti pronosticarono una facile vittoria di Cruise per uno dei due ruoli. In realtà Eyes Wide Shut venne snobbato completamente dall’Academy, mentre Magnolia ebbe solo tre candidature tra cui però quella a Cruise come non protagonista, davvero enorme con il suo misogino Frank T.J. Mackey, capelli lunghi e sguardo assassino. Dovrà arrendersi però a Michael Caine, che vinse (discutibilmente) il suo secondo Oscar per Le regole della casa del sidro.

Da allora, mentre Jerry Maguire ha continuato il suo percorso venendo scoperto da generazioni successive e rischiando un sequel e una serie (nel 2021 Crowe disse che ci stava pensando), Cruise è tornato ancora una volta con il regista per Vanilla Sky e, in realtà, ha tentato un ultimo assalto all’Oscar nel 2004 con un altro grande autore come Michael Mann: in Collateral, il suo sicario brizzolato Vincent era formidabile, ma la nomination la prese (paradossalmente) solo Jamie Foxx. Da allora, dopo un doppio Steven Spielberg, ecco i vari Jack Reacher, Mission: Impossibile, La mummia e Edge of Tomorrow, blockbuster lontani dal cinema d’autore. Negli ultimi quindici anni, non c’è stato nessun tentativo di cambiare rotta, solo mainstream e film da incasso. Chissà che Iñárritu non faccia il miracolo oppure Tom Cruise dovrà rassegnarsi e condividere la sorte con un altro divo che da attore non solo non ha mai vinto l’Oscar, ma ha (incredibilmente) ricevuto una sola nomination in tutta la carriera: Robert Redford.
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