MILANO – L’Angelus Novus di Paul Klee e Giulietta Masina, i vicoli di Taranto e l’eredità di Gérard Philipe, ma anche la lezione di Volonté e quella di Benedict Cumberbatch. Parlare con Lino Guanciale è un affascinante arabesco che sai da dove parte – ovviamente da Il commissario Ricciardi – ma non sai mai dove porta, visto che si snoda tra passato e presente, riferimenti e passioni. «Sono molto felice della risposta che sta avendo la serie di Ricciardi, il pubblico sembra l’abbia amata da subito, dalla prima puntata», riflette l’attore. «Avendoci lavorato tanto, ci speravo, anche perché è stata una lavorazione lunga, non senza difficoltà vista la pandemia, e tutti noi abbiamo davvero dato il massimo per tenere alta la qualità».

Classe 1979, partito dal teatro per poi diventare uno dei volti più amati del piccolo schermo grazie a La porta rossa e a L’allieva, Guanciale è però sempre stato molto attento a non farsi fagocitare dalla televisione, dividendosi sempre su altri progetti e mescolando alto e basso, Ovidio, Elio Petri e la lettura dei Dialoghi di profughi di Brecht (qui). «E oggi sono felice e anche orgoglioso di essere stato definito un attore ponte», sorride lui, «anche perché dopo decenni di steccati in cui un attore poteva fare solo teatro, o solo cinema, o solo tv, oggi fortunatamente i linguaggi sono mescolati. Non c’è più differenza, non c’è più limite. Da questo punto di vista abbiamo imparato da Inghilterra o Stati Uniti dove un attore come Benedict Cumberbatch può fare la Marvel e Amleto senza problemi».

Andiamo con ordine: partiamo da Luigi Alfredo Ricciardi.
«Un personaggio che conoscevo già piuttosto bene ancora prima di arrivare sul set per girare la prima puntata. Sono un lettore accanito quindi un fenomeno letterario come quello di Maurizio de Giovanni non poteva passare certo inosservato. Ho divorato molti dei libri ancora prima di sapere che avrei potuto essere tra i papabili interpreti di Ricciardi, quindi quando è arrivata la chiamata sapevo cosa mi aspettava».
Hai sentito la responsabilità che comportava il ruolo?
«Assolutamente, da subito. Non è mai facile dare vita a qualcuno che già è vissuto per mesi nell’immaginazione di migliaia di lettori, è una sfida enorme. Anche per questo con Alessandro (D’Alatri, il regista, nda) ci siamo visti mesi prima di iniziare a girare per capire come entrare nel mondo di Luigi Alfredo Ricciardi, per capire da che parte avvicinarlo per rendergli giustizia una volta sullo schermo. Credo ci siamo riusciti».

Oggi sei uno dei volti più popolari della televisione, eppure hai iniziato a teatro, con Proietti, nel 2003. Un percorso singolare…
«La prima fase della mia carriera è stata occupata unicamente dal teatro, per mia ferma volontà: dopo Proietti, ho lavorato con Luca Ronconi, Massimo Popolizio, Franco Branciaroli, ed è stata una scuola di recitazione unica, davvero fantastica. La televisione è arrivata dopo, quando già ero un attore formato e sono convinto che esserci arrivato così sia stato molto meglio: la televisione ha tempi stretti, se hai già una buona struttura è molto più facile».
Ma chi sono i tuoi riferimenti? I tuoi modelli?
«Beh, avendo portato a teatro La classe operaia va in paradiso qualche anno fa, a questa domanda devo per forza dire Gian Maria Volonté, un riferimento imprescindibile. Un altro meraviglioso riferimento però, scomparso troppo presto, è Gérard Philipe. Philipe rimane ancora oggi un mito assoluto per generazioni di attori, soprattutto teatrali. Quando apparve a teatro fu una rivelazione per eleganza e forza, ho fatto anche molte ricerche su di lui quando ero ragazzo. Poi dico Marisa Fabbri, attrice teatrale unica, rivoluzionaria. Ho avuto la fortuna di essere stato suo allievo nell’ultimo corso che ha tenuto, nel 2003».

E al cinema? Che tipo di spettatore sei?
«Sono stato un cinefilo appassionato, anzi, potrei dire furibondo (ride, nda). Se devo dire un titolo però forse, tra tutti, oggi dico Giulietta degli spiriti. Non uno dei film più citati di Fellini ma un’opera in cui c’è talmente tanta bellezza che è impossibile non rimanerne conquistati. E poi c’è la meravigliosa Giulietta Masina e una sceneggiatura perfetta firmata da autori come Flaiano, Rondi, Pinelli. Però, detto questo, sono onnivoro: se sto facendo zapping e mi imbatto in Forrest Gump non riesco a non finirlo…».
Un aspetto che colpisce del tuo percorso è che non temi il passato.
«Perché il culto del presente mi fa orrore. C’è un bellissimo quadro di Paul Klee che si chiama Angelus Novus e che raffigura un angelo che vola indietro e tiene occhi su un paesaggio devastato, che sarebbe la storia del primo Novecento. Un’immagine che mi è molto cara, perché significa cercare il futuro ma con occhi lucidi su quello che c’è stato prima. La storia non è una scoria passatista, si deve affrontare il futuro con la consapevolezza di quello che è stato…».
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