MILANO – Schermo nero, un cerchio colorato si muove e si allarga piano piano. Si sente il fruscìo del vento e si esce dalla galleria scorgendo le rotaie del treno costruite sul legno. Una fitta foresta intralcia la via con i suoi rami e le diramazioni caotiche. Hou Hsiao-hsien spalanca così il sipario di Dust in the wind, facendoci prendere il treno che da Taipei si dirige verso un paesino perso in una ruralità estranea al tempo e ai nuovi spazi sociali che Taiwan sta costruendo con il boom economico degli anni Ottanta. Tre anni dopo il primo lungometraggio strutturato, I Ragazzi di Feng kuei, e i due film più autobiografici (In vacanza dal nonno e A Time to Live, a Time to Die), nel 1986 conclude il primo periodo cinematografico incentrato sul ricordo e il rapporto tra adolescenza e mondo adulto con Dust in the wind, proiettato in Europa per la prima volta in versione restaurata al Far East Festival di Udine e oggi disponibile su RaiPlay.

Progetto fondamentale per la filmografia del capostipite del New Taiwan Cinema Movement perché traccia l’apice di un ragionamento filmico più realista e simile alla Nouvelle Vague francese per poi aprirsi verso a un’idea narrativa più personale che confluirà nei capolavori Città dolente (Leone d’oro a Venezia), Flowers of Shanghai, Millennium Mambo e tanti altri. Su quel treno ci sono Wan e Huen, che da scuola tornano a casa, in un paesino incastrato e sperduto tra le colline, una realtà di contadini e minatori analfabeti, di madri e nonne dedite alla casa e alla salute dell’intera famiglia. I due giovani protagonisti, schivi e silenziosi ma legati da un forte sentimento, sono fuori posto in quei luoghi così remoti e immobili, sentono il bisogno di avvicinarsi a un mondo dinamico, dove persiste movimento e respiro.

Finite le scuole medie lasciano le loro famiglie e partono per Taipei in cerca di lavoro, si stabiliscono in casa di conoscenti e iniziano una vita che non appartiene ancora alla loro età, costruita e basata su responsabilità, fatica e sottrazioni emotive. Wan e Huen sono due adolescenti costretti a crescere troppo presto, due innamorati che si scontrano con la complessità della modernità, con le distanze sociali che si instaurano vivendo in una metropoli. E sarà proprio la lontananza dovuta alla partenza di Wan per il militare che incrinerà un rapporto idilliaco e genuino, che aprirà un solco dentro quell’amore così sincero e necessario. Al contrario di come avviene ne I ragazzi di Feng kuei, in Dust in the wind Hou Hsiao-hsien affronta il fondamentale passaggio dall’adolescenza all’età adulta in una maniera più intima, con un amore che resta strozzato, desiderato e mai consumato.

Wan e Huen si guardano raramente, non si toccano quasi mai, specchio di un sentimento ancora lontano dalla carne e dal desiderio, sentimento che però sono costretti a traslare in un luogo e in uno spazio ancora inadatti e troppo crudeli per la loro autenticità. Wan e Huen sono due anime perse, che non possono continuare a stare in un luogo soffocante dove le lettere le scrivono i bambini e la sera ci si ubriaca per dimenticare la tremenda giornata in miniera e che però nella metropoli trovano soltanto distanze e silenzi, luoghi e spazi dove non riescono ad amarsi ed essere felici. Hou Hsiao-hsien – con la sua regia di ampio respiro e lo sguardo sempre rivolto a catturare il reale – non giudica, non si intromette.

E quindi il regista che fa? Pone domande e prerogative che riguardano l’evoluzione sociale di un luogo complesso e frantumato come Taiwan, le contraddizioni e le distanze all’interno del nucleo familiare, il violento impatto emotivo e culturale che si crea quando ci si scontra con la realtà e le sue declinazioni. Inquadrando la realtà, il regista riesce però anche a sorpassarla, a catturare l’invisibile, quello che sta dietro il tangibile, quella polvere invisibile trasportata dal vento, succube di forze incontrollate che si ritrova – come Wan e Huen – ad allontanarsi e vagare senza una direzione. E senza la propria volontà…
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